Sono trascorsi due mesi da quando Fitch aveva migliorato la valutazione sull’Italia. Ma il nostro Paese non è stato l’unico a riscuotere successo. A migliorare è stata anche la Spagna, oggi tra i Paesi più dinamici dell’Europa meridionale, contribuendo a ribaltare la vecchia narrazione secondo cui i cosiddetti Paesi PIGS rappresentavano l’anello debole della gestione fiscale europea. Oggi invece l’economia spagnola si conferma la più florida d’Europa. Soltanto nel terzo trimestre di quest’anno, il PIL del Paese iberico è salito dello 0,6% su base trimestrale, con una previsione di crescita stimata intorno al 2% per il 2026.

Eppure, dietro i progressi delle due nazioni vi sono due narrazioni opposte: una, quella italiana, fondata su una disciplina di bilancio che pesa sulle classi medio-basse; l’altra, quella spagnola, orientata a una crescita inclusiva e strutturale. L’Italia viene premiata per la gestione prudente dei conti pubblici, sostenuta da maggiori entrate fiscali e da un rigoroso controllo della spesa. Ma cosa si cela realmente dietro a questi fenomeni? La crescita delle entrate deriva in buona parte dagli effetti del drenaggio fiscale, con un aumento del gettito IRPEF di oltre 25 miliardi tra il 2021 e il 2023, concentrato sulle classi medio-basse, che hanno visto peggiorare le proprie condizioni di vita. Al tempo stesso, il contenimento della spesa pubblica ha inciso su servizi essenziali come la sanità. Più allarmante è la dinamica della crescita: il PIL italiano resta stagnante e, secondo Confindustria, senza il PNRR, che ricordiamo sempre essere frutto del governo PD-5Stelle, l’economia registrerebbe un -0,3% nel 2025. È un segnale di stallo strutturale, che mette in dubbio la sostenibilità nel medio periodo.

Completamente diversa la storia spagnola. Tutte le principali agenzie di rating attribuiscono i progressi a un’economia in espansione, trainata da tre pilastri: una politica migratoria efficace, una riforma profonda del mercato del lavoro e investimenti nella transizione energetica e nell’autonomia strategica. Il primo dato rilevante riguarda la demografia: dal 2018 la forza lavoro spagnola è cresciuta di circa 1,6 milioni di persone (+7%), passando da 22,8 a oltre 24,4 milioni, trainata da un saldo migratorio fortemente positivo. Solo tra il 2022 e il 2023, il Paese ha registrato un afflusso netto medio di oltre 680.000 persone l’anno, più dell’80% in età lavorativa. In un’Europa segnata dal declino demografico, Madrid dimostra come una gestione lungimirante dei flussi migratori possa diventare un motore di crescita.

Il secondo elemento chiave è la solidità del mercato del lavoro. Le condizioni occupazionali si sono rafforzate in modo significativo: i tassi di attività e di occupazione sono ai massimi storici e i salari in crescita contribuiscono a sostenere la domanda interna. L’occupazione temporanea è scesa ai minimi record, grazie alla riforma del lavoro del 2022, voluta dal governo Sánchez. Tra le altre cose, tale riforma ha ridefinito il modello occupazionale, limitando l’uso dei contratti a termine a casi eccezionali e di breve durata, incentivando i contratti a tempo indeterminato e creando nuove formule di lavoro stabile per i settori stagionali. Gli effetti sono tangibili: la quota di lavoro temporaneo è ai minimi storici, la stabilità occupazionale è aumentata, in particolare tra i giovani, e la dualità del mercato del lavoro (la frattura tra lavoratori precari e stabili) si è attenuata, senza compromettere la creazione di posti di lavoro.

In sintesi, se le agenzie di rating premiano il miglioramento dei conti pubblici, esistono diverse vie per raggiungere questo obiettivo. La Spagna lo fa attraverso politiche di crescita inclusiva, capaci di rafforzare il tessuto produttivo e migliorare le condizioni del lavoro. L’Italia, al contrario, fonda i propri risultati su una disciplina di bilancio che rischia di comprimere la crescita e accrescere le disuguaglianze. Due modelli diametralmente opposti.

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