Legge elettorale come gioco dell’oca, ogni volta si torna al punto di partenza

Storia tormentata quella della produzione delle leggi elettorali nell’Italia del nostro tempo. Una storia tormentata, goffa e priva di una qualsiasi credibilità; fa pensare alla tessitura della tela di Penelope senza Penelope e priva dell’attesa del ritorno di Ulisse. Una storia senza storia, inutile e dannosa. Sola a partire dalla pessima legge di riordino delle regioni con la riforma del 2001 sul titolo V della Costituzione, si sono succedute la legge Berlusconi-Bossi, la Renzi, il Porcellum, l’Italicum, il Rosatellum uno e due. Il popolo è stato chiamato al voto referendario sulla questione nel 2006 e nel 2016 e la Corte costituzionale si è pronunciata su di essa con le sentenze del 2014 e del 2016.

Non ci siamo fatti mancare nulla. Il risultato è che, come nel gioco dell’oca, siamo tornati al punto di partenza, tutto da rifare. Sarebbe allora una misura di igiene interrogarsi se non esista una causa profonda quanto ignorata che sta alla base di questi fallimenti e che, se non affrontata, condurrà i nuovi tentativi agli stessi esiti. Le leggi elettorali si sono rivelate efficaci e durevoli quando hanno corrisposto a sistemi politici forti e durevoli. Nella nostra storia lo sono state in due casi opposti: quella di un regime autoritario, la dittatura fascista, e con l’avvento della democrazia – e di una particolare forma della democrazia -, la democrazia progressiva. Nel primo caso la legge Acerbo si prefiggeva l’obiettivo di consolidare il regime; nel caso opposto, con la legge proporzionale del 1946 si perseguiva l’obiettivo di garantire la rappresentanza e la rappresentatività del popolo dentro un più ampio processo di partecipazione popolare.

Nell’uno, come nell’altro caso, la legge elettorale vuole contribuire a rispondere alla domanda di Alice nel paese delle Meraviglie “chi comanda qui?”. Nel primo caso la risposta è il fascismo, nel secondo è il popolo. Ma perché possa essere davvero il popolo, la sua Costituzione deve vivere. In Italia, la lotta per far vivere la Costituzione è stato il centro dei “trenta anni gloriosi”, per questo la legge elettorale proporzionale del 1946 ha resistito così a lungo. Per questo, quando la conservazione provò a metterla in discussione con l’introduzione di un premio di maggioranza che gli costò la definizione di “legge truffa”, la legge elettorale fu difesa con una straordinaria mobilitazione democratica. Lo fu perché era vissuta come la tessera di un mosaico costituito dalla natura sociale della Repubblica, dal valore del conflitto sociale, dai partiti di massa e dal loro essere agenzie formative, dalla centralità del Parlamento e dalla partecipazione popolare. Se la legge elettorale si riduce, invece, al contrario, ad essere una tecnica per scegliere i governanti, non può che rivelare la sua impotenza.

È ciò che è accaduto in tutta quella che chiamiamo la “Seconda Repubblica”. L’importanza attribuita alla legge elettorale sta in un rapporto inversamente proporzionale al peso reale che hanno la democrazia e la politica. Nel ciclo in cui è aumentata a dismisura la produzione di leggi elettorali, nell’ultimo quarto di secolo, si è consumata infatti sia una profonda crisi della democrazia che una radicale crisi della politica quale agente dotato di autonomia. Le tendenze oligarchiche hanno svuotato i Parlamenti in tutti i paesi europei; i governi sono stati imprigionati dal dominio dell’economia e di questa economia, i partiti hanno perso le loro radici sociali e la loro connessione con il popolo e sono stati scossi dai fenomeni populistici.

La legge elettorale è stata allora scelta per supplire a questo devastante deficit, come se avesse potuto farlo. Col sistema elettorale maggioritario si pensa di occultare la crisi dei partiti che hanno perduto persino i loro nomi. Con il primato delle coalizioni si pensa di risolvere la volatilità dei governi, la cui forza è invece minata da giganteschi processi strutturali e istituzionali, europei e mondiali, e, dal basso, da una formidabile crisi di consenso. La governabilità e la ricerca della stabilità hanno fallito. Sono state le risposte moderate e modernizzatrici a una crisi di cui si sono volute ignorare le più profonde radici economiche, sociali, culturali e politiche, le quali si prendono la rivincita dando luogo a una stabile instabilità. La ricerca della salvezza in una buona legge elettorale è un’illusione; la ricerca, come ora accade, di una legge elettorale che favorisca la propria parte nella conquista del governo è del tutto miope.

La propensione a cercare una soluzione della crisi nella legge elettorale è come mettersi all’inseguimento del cavallo ruffiano. Le leggi elettorali susseguitesi nel nostro Paese hanno visto tutte falsificatesi le loro promesse senza mai superare la prova di una interna coerenza e, tanto meno, senza neppure avvicinarsi alla soglia dell’efficacia. I fautori di quest’ultime hanno spesso, con qualche ragione, indicato come modello quello francese. Con questo sistema, Macron viene incoronato Presidente della Repubblica dei cui poteri dispone, fonda un nuovo partito con il quale guadagna la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, con questo bagaglio dorato si accinge a governare senza condizionamenti partitici e istituzionali.

Alla prima prova viene fermato da una rivolta lunga, possente e diffusa, sono i gilet-jaunes che lo fermano. La luna di miele è già finita. Poi prova a mettere in discussione il sistema pensionistico e una serie di imponenti scioperi generali paralizzano la Francia. La governabilità è già in crisi. Anche in politica istituzionale non si possono prendere lucciole per lanterne senza fallire. Se la crisi è della democrazia, non puoi cercare una soluzione tecnica in una qualsiasi legge elettorale.