E così è successo. Un po’ alla chetichella e con qualche colpo di scena, come sempre accade per le iniziative importanti compiute in sede parlamentare, si sono raccolte e depositate ieri in Cassazione le firme necessarie per sottoporre a referendum confermativo la riforma che taglia il numero di parlamentari, sempiterno spot elettorale del Movimento 5 Stelle. Se la Corte costituzionale darà il via libera, in primavera si potrà tenere la consultazione popolare.

C’è già chi si è affrettato a leggere questo risultato in chiave tattica, ritenendolo un modo astuto per lasciare aperta la finestra elettorale nei prossimi mesi grazie alla convenienza per i partiti di votare con il vecchio numeri di parlamentari (il referendum pendente infatti congela il taglio). Può essere che per qualcuno sia così, dato che la politica ha la capacità di piegare ogni accidente alle proprie necessità del momento, ma qui è più utile concentrarsi sul vero significato di questo referendum, e sull’opportunità che può rappresentare, pur partendo dal “male” di un provvedimento a mio parere illiberale e illogico.

Occorrevano le firme di almeno un quinto dei parlamentari di una delle due Camere, c’erano tre mesi di tempo per raccoglierle e il traguardo è stato raggiunto al Senato. Io stessa, pur avendo votato a favore del taglio per disciplina di partito, mi sono resa promotrice alla Camera della raccolta di firme partita grazie a un’iniziativa della Fondazione Einaudi. Non riesco a condividere il principio che vi sottende, non l’ho mai condiviso: il Parlamento come fonte di tutti i mali, la decisione di considerare l’istituzione rappresentativa un orpello inutile e costoso, pertanto privo di valore e di significato, e l’accettazione, anche da parte di chi non è d’accordo, di uno stato di fatto per cui non vale neanche la pena combattere perché “si tratta di una battaglia impopolare”.

Qui non è in ballo qualche centinaio di teste o stipendi, qui è in ballo il principio della democrazia rappresentativa come forma di autogoverno di un popolo. Credo giusto che su un tema come questo gli italiani possano ascoltare qualcosa di più di tre o quattro slogan urlati da un tetto o da un balcone. Credo che si debba dare luogo ad un confronto un po’ più vero e un po’ più articolato, farsi un’idea di che democrazia si vuole, se la vogliamo, e poi esprimerci. Il referendum serve a questo. A pensare, confrontarsi, anche scontrarsi, su un argomento tutt’altro che secondario, la cui forma è stravolta da strati e strati di melassa anti-casta. E questo sarà un referendum sul pro o contro la democrazia liberale.

E non solo, sarà un referendum sul grillismo, cioè su quel modo di pensare il mondo che in neanche due anni di governo ha trasformato l’Italia da stato quasi liberale a stato etico, imponendo la religione del colpevolismo, del sospetto, dell’invidia sociale e della decrescita. E anche dell’incompetenza. Con questo referendum si andrà al vedo e spero e penso che ci sarà occasione, durante la campagna referendaria, di confrontarsi su due modelli di Italia, e di non indietreggiare di fronte alla complessità della questione.

Il provvedimento ha superato quattro esami del Parlamento, ed è stato accompagnato da un esile e semplicistico dibattito in aula: l’ultimo voto, decisivo, è coinciso con il cambio della maggioranza di governo, da gialloverde a giallorossa. Insieme alle forze di maggioranza avevano votato sì anche quelle di opposizione, inclusa Forza Italia. Al Senato però, in terza lettura, la proposta di legge non ottenne il voto dei due terzi dell’Aula, mentre in quarta lettura alla Camera ci fu unanimità. Un’incongruenza dovuta proprio al cambio della maggioranza di governo, dove il voto favorevole era legato alla necessità di varare altre riforme che accompagnassero quella sulla riduzione dei parlamentari. Riforme che, entro la data di entrata in vigore della legge, è assolutamente certo non potranno esserci. Anche per queste ragioni, il ricorso al referendum è più che opportuno.