C’era da aspettarselo. Nondimeno per i riformisti è un’altra giornata nera: la strada verso il pieno ripristino di una legislazione elettorale proporzionale è ora davvero spalancata. La stessa legge vigente, a larga prevalenza proporzionale ma pur sempre con tre ottavi di seggi maggioritari diventa una specie di linea del Piave che però sarà difficile da difendere, anche se la Lega farà le barricate. Siamo alla chiusura del cerchio: le riforme istituzionali ed elettorale partirono con la strategia referendaria di fine anni Ottanta, sembrano tramontare definitivamente con l’inammissibilità della proposta suggerita da Calderoli ed avanzata da otto consigli regionali governati dalla destra, trent’anni dopo.

Un intreccio costante fra iniziative referendarie, decisioni della Corte sull’ammissibilità – sempre controverse, votazioni popolari, quasi sempre stiracchiati e faticosissimi iter parlamentari, sentenze di merito della Corte peggio che criticabili (la 1/2014, che abolì il premio di maggioranza e impose le preferenze, e la 35/2017 che abolì anche il doppio turno con premio: ancora devo capire perché).

È il cane che si morde la coda: delle riforme ci sarebbe bisogno come del pane per far funzionare il nostro claudicante sistema politico parlamentare, ma proprio le sue strutturali debolezze han fatto fallire un progetto dopo l’altro, in due occasioni perfino dopo che le Camere s’erano alla fine impegnate nel fare il proprio dovere. Trent’anni di storia referendaria elettorale si concludono, dunque, qui. Dal referendum sulla preferenza unica, il solo ammesso (1991) a quello sulla legge elettorale del Senato, il solo vittorioso (1993), a quello fallito per un pelo per abolire il 25% di proporzionale delle leggi Mattarella (1999), a quelli del 2000 e del 2009 (il Guzzetta-Segni) quando ormai gli elettori avevano cominciato a perdere le speranze e il quorum mancò, all’inammissibilità negata al referendum Morrone-Parisi nel 2012 (quello per far rinascere le leggi Mattarella dall’abrogazione della pessima legge Calderoli del 2005).

A ben vedere i momenti decisivi di un passato che sempre ritorna furono due: il mancato quorum del 1999, quando i votanti furono il 49.6%, ne mancarono solo 150.000 con liste piene di defunti non aggiornate e voto dall’estero che ancora non c’era (altrimenti avremmo avuto ormai un consolidato sistema maggioritario da 20 anni!); il famigerato “no” contro Renzi, che si portò via anche l’Italicum che avrebbe funzionato alla grande, insieme alla riforma costituzionale (2016). Confesso che ero fra coloro che, soppesati i pro e i contro, avevano sperato in una via libera della Corte a questa iniziativa referendaria: nella convinzione che in Parlamento, poi, destra salviniana e maggioranza avrebbero potuto trovare una soluzione di compromesso che favorisse la governabilità (s’era ipotizzato, Salvini buon ultimo, un recupero proprio delle due leggi Mattarella: provatamente le migliori dell’intero dopoguerra).

In effetti il contro era uno solo: l’eventualità che di una legislazione elettorale maggioritaria quanto e soprattutto più maggioritaria sia avvantaggiasse Salvini, dato tuttora vincente coi suoi alleati di destra da tutti i sondaggi. Ma a parte il fatto che se quei sondaggi un giorno si traducessero in voti veri non esiste barba di legge elettorale in grado di impedire all’uomo del mojito di diventare presidente del Consiglio di un governo di destra-destra, non sembrava tollerabile che in nome delle convenienze immediate (ovvero non fare andare al governo il cattivo di turno) si continuasse a buttare alle ortiche una strategia riformatrice lunga decenni e a trovare scuse per non fare ciò che tutti sappiamo sarebbe più opportuno per dare finalmente all’Italia un governo un minimo più stabile e un minimo più efficiente, dunque più forte: o almeno per garantirne i presupposti istituzionali (poi son sempre gli uomini e le donne in carne ed ossa, cioè “la politica” a determinare gli esiti finali, i successi o i fallimenti).