“Sono convinto che il Leoncavallo rivesta un valore storico e sociale nella nostra città. È la mia opinione, so che le mie parole non troveranno d’accordo tutti”. Così il sindaco Beppe Sala ha commentato lo sgombero, lamentando di non essere stato avvertito dell’operazione. Parole che rivelano l’eterno equivoco del Leoncavallo: un “valore storico” che però nessuna amministrazione, di destra o sinistra, è mai riuscita a tradurre in una soluzione legale. Dopo cinquant’anni di occupazioni e 31 anni in via Watteau, la parabola del centro sociale si chiude esattamente come era iniziata: nell’ambiguità.

La storia del Leoncavallo, un equivoco eterno

La storia del Leoncavallo inizia nel 1975, quando l’occupazione di via Mancinelli intercettava istanze reali di una periferia operaia priva di servizi. Ma già dalla tragica morte di Fausto e Iaio nel 1978, il centro sociale ha iniziato a costruirsi un’aura mitologica, attorno a un’identità “geneticamente antagonista”. Il tentato sgombero del 16 agosto 1989 e la resistenza violenta che ne seguì rappresentarono l’apice di questa fase eroica, ma anche l’inizio di una frattura interna tra chi cercava il dialogo con le istituzioni e chi preferiva mantenere una posizione di antagonismo puro. Il sindaco leghista Marco Formentini, eletto nel 1993 con la promessa di sgomberare il Leoncavallo, paradossalmente ne provocò il trasferimento prima in via Salomone e poi, nel settembre 1994, nell’ex cartiera di via Watteau. Fu in questo periodo che nacquero le “tute bianche”: la scelta che segnava l’abbandono delle pratiche più radicali a favore di una strategia di “disobbedienza civile”. La scelta di trovare spazio politico in Rifondazione Comunista, con l’elezione di Daniele Farina prima in Consiglio comunale e poi alla Camera, fu un tentativo di istituzionalizzazione, saltando – però – il necessario passaggio di un’intesa con le amministrazioni della città. Leoncavallo metteva piede nelle assemblee, ma non sanava la sua condizione di conflitto con la città.

Il sindaco di centrodestra Gabriele Albertini dichiarò di voler essere “il sindaco di tutti, da Tronchetti Provera al Leoncavallo”, e fu Sergio Scalpelli, assessore ai giovani in quella Giunta, a ipotizzare nel 1999 una soluzione basata sull’idea della Fondazione Pubblico-Privato, ripresa poi dall’amministrazione Moratti. Ma questi tentativi di dialogo si sono sempre scontrati con una duplice resistenza: quella ideologica del centrodestra più intransigente e quella identitaria del centro sociale stesso, incapace di abbandonare completamente la sua natura “contropolitica”.

Quel valore storico che nessuna amministrazione è riuscita a tradurre in legalità

Beppe Sala aveva riaperto le trattative, dichiarandosi disponibile a “tornare al tavolo” per una regolarizzazione. Ma anche questa volta il processo si è arenato, fino alla sentenza della Corte d’Appello che ha condannato il Ministero dell’Interno a risarcire 3 milioni di euro alla proprietà Cabassi per il mancato sgombero. Una sentenza che ha precipitato gli eventi. Il paradosso del Leoncavallo sta in un conflitto tra natura e scelta, tra funzione e ideologia: nato come risposta alla mancanza di aggregazioni giovanili urbane, agli stati di abbandono edilizio, è finito per essere un fortino dell’antagonismo fine a sé stesso. C’è poi la questione della legalità. L’occupazione abusiva è diventata negli anni un valore in sé, un marchio identitario irrinunciabile anche quando esistevano alternative. L’epilogo di via Watteau chiude simbolicamente un’epoca. Vero, “Leoncavallo ha fatto parte della storia di Milano”, ma ha finito per restarne fuori.