Salve prof. Mannino,
oggi le vorrei raccontare la mia storia, perché mi ha sempre ispirato fiducia. Da quando sono diventata una sua alunna, lei non ha visto in me solo l’apparenza. Ha visto oltre e questo mi ha aiutato a crescere. Mi presento correttamente. Il mio nome è Afrah, ho 18 anni, sono nata in Sudan, originaria etiope, ma cresciuta in Italia. In Sudan mia madre era proprietaria di un B&B e mio padre lavorava in un ristorante, mia sorella frequentava le medie e io andavo all’asilo. Quando avevo quattro anni, la mia famiglia decise di trasferirsi in Libia, perché ci fu una guerra tra sudanesi: in seguito il Paese si divise in due parti. Non appena arrivati in Libia, ci accorgemmo subito che la situazione era molto pericolosa, perché i libici punivano le donne che non indossavano il velo. Mia madre era ortodossa e mio padre musulmano.
Gli stranieri che vivevano da più tempo in Libia crearono un’area lavorativa a Tripoli per soli stranieri. E così i miei genitori aprirono un ristorante e iniziarono a lavorare diligentemente. Mia sorella li aiutava, io invece passavo il tempo a giocare con i bambini. Non frequentavo la scuola perché la mia famiglia aveva paura che potesse capitarmi qualcosa di brutto: un giorno venni quasi rapita, ma per fortuna quell’uomo fu fermato prima che potesse arrivare al cancello. In quel periodo sequestravano i bambini per poi ucciderli e vendere i loro organi. Col passare del tempo i miei genitori decisero di voler andare in Italia, ma i soldi per pagare lo scafista non bastavano e così ci tirammo indietro. Proprio allora un mio amico partì con la sua famiglia, ma un mese dopo sentimmo che la loro barca si era capovolta. Morirono tutti. Fu uno choc. Frattanto la Libia diventava ogni giorno sempre più pericolosa per gli stranieri. Mesi dopo i miei genitori decisero di voler partire e iniziarono a chiedere informazioni sulla barca. Così a un certo punto decidemmo di andar via. Partimmo a notte fonda, salimmo su un grande furgone e iniziammo il nostro lungo viaggio.
Superato il deserto, fummo catturati quattro volte. I sudanesi ci vendettero ai libici e poi ancora i libici ad altri libici.
Per due volte i miei genitori pagarono per essere liberati. La terza volta però restammo senza soldi. Così presero i miei genitori e li misero in una stanza con dei serpenti, minacciandoli che se non avessero pagato sarebbero morti lì. Io e mia sorella eravamo all’oscuro di tutto, ma la paura c’era nel non vedere i nostri genitori. Infine mia madre chiese un prestito a mia zia che stava in America. Fummo liberati tutti e continuammo il nostro viaggio. Arrivati in una villa ci chiesero di nasconderci. Ero nel cortile e mi stavo annoiando, quando uno di loro mi disse: «Sto uscendo, non aprire a nessuno». Io però capii male. Pensai che mi avesse detto di aprirgli non appena fosse stato di ritorno. Sentii qualcuno bussare, mi misi a correre per aprire, e aperto il portone vidi un fucile puntato sulla mia fronte. Per il terrore mi misi a correre verso mia madre. Fummo di nuovo presi, mia madre pagò di nuovo, ma i soldi non bastarono neanche allora. E così mio padre decise di rimanere indietro. Io, mia madre e mia sorella proseguimmo il viaggio da sole. Senza mio padre. Alle 21 cominciammo a correre per raggiungere la riva dove la barca ci stava attendendo.
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Cinque ore senza fermarci. Io ero sempre in braccio a mia madre o di qualche ragazzo che si offriva di aiutarla: avevo sei anni, ero piccola per sopportare quel percorso che per giunta era fatto di corsa. Arrivati a riva trovammo la barca e salimmo a bordo. Iniziammo il viaggio in mare. Ma a metà viaggio il motore si fermò. Tutti dal panico iniziarono a urlare dalla disperazione e a pregare, finché dopo qualche ora venne una barca molto più grande della nostra. Erano i libici. Ci chiesero se volessimo tornare in Libia o restare in mare. Tutti risposero di voler morire in mare piuttosto che tornare, mia madre urlando chiese di aiutarci, che aveva due bambine. I libici senza pietà se ne andarono come se non stesse accadendo nulla intorno a loro. Il mattino seguente incontrammo dei pescatori tunisini che ci aiutarono con il motore. Ci dissero che avevamo sbagliato rotta, che stavamo andando verso Malta. E così ci guidarono verso la Sicilia. Chiamarono la guardia costiera. Finalmente dopo tre notti e tre giorni arrivammo in Sicilia.
Sono ormai dodici anni che vivo in Italia, parlo, scrivo e penso in italiano, l’unica cosa che mi manca per completarmi è un pezzo di carta, la cittadinanza italiana. Bacerò sempre questa terra come fece mia madre la prima volta che arrivammo, sono multietnica, Sudan, Etiopia, Italia. Tre terre diverse. Tre culture differenti, ma fanno parte di me e della mia storia.
Cordiali saluti, la sua alunna
Tesfay Afrah Abrahem
