Un modello di sviluppo economico solido non può prescindere dalla chimica. In Italia l’industria chimica è il quinto settore produttivo in assoluto e il Paese è terzo in Europa dopo Germania e Francia, con circa 67 miliardi di euro di valore della produzione, oltre 2.800 imprese e 112 mila addetti qualificati. Numeri che si riflettono anche sull’export, arrivato a 43 miliardi di euro nel 2024, una cifra superiore a quella di molti comparti tradizionalmente più celebrati.

Eppure, nonostante i prodotti chimici siano presenti in quasi tutte le filiere industriali, il settore attraversa oggi una fase di crisi profonda. Il ruolo del pubblico si è progressivamente ridimensionato, mentre i grandi gruppi privati restano forti ma sono chiamati a scelte sempre più selettive sugli investimenti, in un contesto in cui la chimica di base appare penalizzata rispetto ai segmenti legati alla sostenibilità. Sullo sfondo pesano le tensioni geopolitiche e commerciali. I dazi statunitensi rappresentano un fattore di incertezza strutturale: l’accordo tra Unione europea e amministrazione Trump ha attenuato l’impatto immediato, ma i dati del 2025 mostrano una netta inversione di tendenza. Tra gennaio e agosto l’export chimico italiano verso gli Stati Uniti è sceso del 4,1%, mentre le importazioni sono aumentate dell’8%, come rileva Federchimica.

A questo si aggiunge l’effetto indiretto dei dazi sui prodotti chimici cinesi, che spingono nuova domanda verso l’Europa ma al tempo stesso intensificano la concorrenza sul mercato interno. Tuttavia, le barriere commerciali non spiegano da sole le difficoltà del settore. Oggi l’industria chimica italiana fatica a competere soprattutto sul fronte dei costi energetici, più elevati rispetto a quelli di Francia, Germania e Stati Uniti. Alla base c’è il funzionamento del mercato europeo all’ingrosso, che favorisce contratti di fornitura di breve periodo e limita la possibilità di stabilizzare i prezzi attraverso accordi di lungo termine. Inoltre, il mancato disaccoppiamento tra il prezzo dell’elettricità e quello del gas fa sì che una parte rilevante del costo dell’energia elettrica continui a essere determinata dalle quotazioni del gas. Su questo quadro già critico si innestano le politiche climatiche europee. Federchimica sottolinea che, in presenza di prezzi energetici elevati, i costi diretti e indiretti legati alle emissioni di CO2 nell’ambito dell’EU Emission Trading Scheme rischiano di pesare in modo crescente: nello scenario al 2030 il costo complessivo potrebbe raddoppiare, superando 1,5 miliardi di euro, con ulteriori aggravi attesi dall’entrata in funzione dell’ETS2.

Dal mondo industriale arriva un richiamo netto alla centralità del settore. Mario Alessandro Castagna, responsabile delle relazioni istituzionali di BASF Italia, ha ricordato di recente che «la chimica è anche un motore della transizione ecologica: pannelli solari e batterie sono processi chimici». L’idea di sacrificare la chimica di base per preservare solo quella più avanzata si è rivelata, a suo avviso, un errore strategico, perché «abbiamo perso entrambe». Castagna rivendica il valore della chimica italiana, capace di generare 43 miliardi di export e di sostenere una manifattura che resta un patrimonio industriale e tecnologico del Paese.

Un patrimonio che può continuare a competere sui mercati globali solo a condizione di ricevere un sostegno adeguato, attraverso misure energetiche immediate e politiche industriali di medio-lungo periodo. Rinunciare a un settore altamente innovativo, che impiega una quota di laureati superiore alla media nazionale, significherebbe indebolire strutturalmente il sistema produttivo. Anche in un contesto internazionale instabile, la direzione indicata resta chiara: rafforzare l’industria senza cedere a modelli autoritari o a scorciatoie competitive, ma continuare a crescere mantenendo un’impronta europea fondata su welfare e coesione sociale, perché, come ricorda Castagna, «industria e sostenibilità sociale vanno di pari passo».