Liste e candidati, la classe dirigente non parla napoletano: Campania emarginata

Saltando i convenevoli tipo «mai più al voto con questa legge elettorale», un mantra della politica italiana dal 1993, nonostante ne siano state cambiate ben quattro, una valutazione complessiva sulla qualità dell’offerta politica che voteremo il 25 settembre porta ad individuare le tendenze di fondo nella seconda applicazione della legge Rosato.

Le leggi elettorali sono l’immagine della classe politica. L’immagine rilasciata è quella di una chiusura oligarchica nient’affatto minore rispetto alle liste bloccate lunghe del vecchio “porcellum”. Imperversa un clima da basso Impero, ed è un peccato perché i programmi elettorali dei partiti, con le dovute differenze, non sono così male. Senonché i programmi li portano poi avanti donne e uomini. È qui che si registra un arroccamento, accentuato dal terremoto elettorale alle porte che vede, ad eccezione di Fratelli d’Italia, tutte le forze politiche fortemente rimaneggiate e pertanto grandemente concentrate a salvaguardare il nucleo duro dei parlamentari uscenti. A tale tendenza non si è sottratta neanche la neonata Azione, tanto che per l’occasione ha preferito dar spazi a ingressi “last minute”. I meccanismi di realizzazione di una quasi completa preordinazione della rappresentanza politica campana, e di una contestuale compressione del ruolo dell’elettore, sono diversi. Li elenchiamo.

La necessaria coerenza tra voto nel collegio uninominale e nella parte proporzionale, che riduce di molto la libertà dell’elettore, dovendo scegliere insieme persone e liste. La lista bloccata, ovviamente. La classificazione dei collegi in base per fasce di affidabilità in termini di potenziale elezione (sicuri, contendibili, perduti). Le multicandidature, vera cerniera della selezione della classe politica tra la parte maggioritaria e proporzionale, ovvero la possibilità che lo stesso nome ricorra più volte sulla stessa scheda o su territori diversi, che sono previste e sfruttate ampiamente. Le multicandidature integrandosi con il regime delle opzioni consentono ad un tempo di trainare un sempre più stanco voto di opinione e di selezionare i fedelissimi dei leaders. Scrolliamoci di dosso per una volta il complesso della vittima. Non è solo in Campania ma dovunque, che la prossima rappresentanza è stata già scelta dai partiti in massima parte ed è fatta di “paracadutati”.

Le incognite residue sono legate a fattori imponderabili per i partiti: quanto conteranno le personalità nei collegi per trainare il voto; l’incognita derivante da quattro poli nazionali – destra, sinistra, Terzo polo e Cinque Stelle – probabilmente tutti in doppia cifra (in Campania cinque, con considerando le liste organizzate da de Magistris) che avrà effetti non facili da preventivare nei collegi e dunque anche sul proporzionale; l’alea di non sapere chi “scatterà” dove, con conseguenze decisive per i candidati posti in posizioni meno agevoli. Certo la Campania è una vacca da mungere più a fondo per un duplice ordine di ragioni: l’appetitoso numero dei seggi che offre in ragione della popolazione e il fatto di conservare un’ampia area metropolitana che conserva una riserva di voto d’opinione.

Ma il vero tema politico è un altro. Curiosamente i pochi campani su cui i partiti contano – Amendola, Scotto, Maraio – sono candidati e saranno eletti (in qualche caso, forse) altrove. Perché non candidarli qui? Le uniche eccezioni sono quella di rilievo di Mara Carfagna e l’altra, ormai in tono minore, e a rischio, di Luigi Di Maio. Ci attende ancora una legislatura dove la Campania conterà poco o nulla. Una regione ormai priva di classe dirigente. Con l’eccezione del ministro Carfagna, maggiormente se darà il segnale di optare per un’elezione in Campania, i destini della Regione appaiono rimessi in via praticamente esclusiva alla lungimiranza delle classe dirigenti nazionali. Che non parlano più da decenni con accento napoletano.