Mafia o no, compito del Pm non è scendere il guerra contro il male

Il magistrato può “lottare” contro i fenomeni di devianza della società o deve limitarsi ad accertare la singola responsabilità del singolo individuo su ogni specifico fatto? Contro la mafia si lotta, contro la corruzione si applica la legge, è la risposta. Non è un quesito banale, quello che pone, sulla Stampa di ieri, un ex alto magistrato come Giuseppe Pignatone, che occupò il più alto scranno della procura di Roma. Pone un problema che molti, evidentemente, hanno posto a lui. Ma non dice quel che sta dietro la domanda, cioè quello che divide lo Stato liberale, con la supremazia del diritto e la libertà dell’individuo, dallo Stato etico, Giudice assoluto del bene e del male per l’individuo e per la collettività. Questo è il punto vero.

Nessun magistrato, e men che meno uno illuminato come Pignatone, lo ammetterà mai, ma la differenza tra un pubblico ministero che indaga sul singolo individuo in relazione a uno specifico reato e quello che indossa la veste del condottiero (come sono i cosiddetti magistrati “antimafia”) in lotta per sgominare i fenomeni criminali, è proprio quella che separa e contrappone lo Stato liberale allo Stato etico.

Naturalmente il dottor Pignatone non pone la questione sul piano filosofico, ma giuridico. E cerca di spiegare la differenza tra fenomeni come la mafia e la corruzione. Come se la prima fosse un’entità che si può solo abbattere con gli strumenti della forza (la lotta del Bene contro il Male) e la seconda con gli strumenti ordinari dello Stato di diritto. Perché contro la mafia il magistrato deve “lottare”, scrive poi l’ex procuratore. Lo sappiamo almeno fin dai tempi del maxiprocesso di Palermo, che non sarebbe stato possibile se non partendo dal portare a giudizio l’intero vertice di Cosa Nostra. Con responsabilità spesso “oggettive”, si potrebbe obiettare, ricordando come proprio quello sia stato un punto di dissenso anche all’interno degli stessi giudici, tra quelli del primo e quelli del secondo grado. Perché se è vero che la mafia ha le sue strutture organizzative, i suoi giuramenti, le sue regole di funzionamento, non è detto che queste debbano essere conosciute e approfondite prima di individuare rei e reati. La pretesa da parte del magistrato di farsi storiografo e sociologo è la base di tanti errori e tante sconfitte per esempio nelle indagini su reati imputati ad esponenti della ‘ndrangheta in Calabria. Quando il procuratore Gratteri getta la rete per la pesca a strascico, con l’uso smodato del reato associativo (spesso anche il concorso esterno) e la pretesa di arrivare fino a chissà quali sepolcri nascosti, crea solo un grande polverone in cui nessun giudice, se non sarà subalterno, sarà in grado di compiere il proprio dovere.

E c’è un’altra questione. Il pubblico ministero non risponde a nessuno delle proprie azioni, non all’elettorato né al Parlamento o al governo. In nome di quale scelta di politica criminale dovrebbe quindi “lottare”? Da bravo funzionario dello Stato dovrebbe limitarsi a fare il proprio dovere, svolgendo indagini ogni volta che acquisisce una notizia di reato. Ma in Italia, al contrario di quanto accade negli altri Paesi dell’occidente, l’intera corporazione dei magistrati è contraria alla separazione delle carriere tra chi accusa e chi giudica e soprattutto vede come il diavolo la possibilità che il pubblico ministero debba render conto delle sue azioni agli elettori o al ministro di giustizia.

È inutile girarci intorno, gratta gratta esce sempre la lotta del Bene contro il Male. Che è poi la stessa filosofia, banalizzata da coloro che volevano assaltare il Parlamento per aprirlo come una scatoletta di tonno, che ha prodotto una legge come la “Spazzacorrotti”, che ha equiparato i reati contro la Pubblica Amministrazione a quelli di terrorismo e di mafia. Del resto, che differenza c’è tra il concetto di “spazzar via” e quello di “lottare contro”? Di questa normativa del 2019, così come della “Legge Severino” del 2012 e dell’utilizzazione del trojan, il procuratore Pignatone attribuisce ogni responsabilità al Parlamento che le ha votate (ma non dovrebbe essere sempre così?) piuttosto che alla magistratura che le applica. Ne prende le distanze, si intuisce dal suo scritto, proprio perché considera la corruzione un fenomeno qualitativamente e storicamente diverso rispetto alla mafia. Ma tutta l’impalcatura del suo ragionamento si incrina prima di tutto sul fatto che ormai siamo in presenza di una folta giurisprudenza in tema di mafia che sta acquisendo sempre più vigore di legge, come per esempio nel caso di quell’abominio che si chiama “concorso esterno in associazione mafiosa”. E poi perché, se il pubblico ministero debba essere autorizzato (da chi? non certo dalla Costituzione) a debordare dal suo ruolo principe di indagatore per diventare storico e storiografo (Gratteri pretende persino di fare lo psicologo) e sociologo per capire un intero settore di società criminale per poi poterla “combattere”, perché non potrebbe arrogarsi il diritto di farlo anche, come piace a una parte del Parlamento, nei confronti di altri ambienti come quelli in cui si sviluppa la corruzione? Si domandi, dottor Pignatone, perché il suo articolo sulla Stampa sia stato titolato (non da lei) “Perché le toghe combattono la corruzione”.