Chicco & Claudio
Il PCI era proprio un animale strano
Marxismo-leninismo, centro-sinistra: quando un trattino giustifica un’identità
11- Un piccolo segno di punteggiatura può scatenare divisioni, come quando Berlinguer modificò lo statuto del partito, separando i due padri del comunismo. E chi si ricorda del dibattito tra Prodi, Veltroni e D’Alema?
Caro Claudio,
certo che il PCI era proprio un animale strano. Anni fa in un’intervista mi venne chiesto quali fossero state le motivazioni della mia scelta per quel partito. Ebbi qualche difficoltà a rispondere perché ormai consapevole dei tanti problemi rispetto ai quali il PCI si era posto in modo completamente sbagliato. In sintesi cercai di dire che il PCI fu per me la scelta di collocarmi in modo intermedio fra il furore rivoluzionario che attraversava il mondo giovanile post ’68 – sia chiaro del tutto velleitario, anche se successivamente purtroppo degenerò in alcuni casi in azioni terroristiche molto gravi – e il moderatismo imperante nella DC e nei partiti che la sostenevano. E poi come tutti ero affascinato dalla personalità di Berlinguer e dalle aperture, non poche, che stava facendo nel tentativo di superare quel fattore K che lo inchiodava all’opposizione. Ma era un continuo zigzagare fra tradizione e novità, fra dogmatismo e innovazione, fra gesti di rottura e continuismo.
Nel 1973 Berlinguer apre con i 3 articoli di Rinascita sul compromesso storico, nel 1976 rilascia l’intervista a Pansa in cui dichiara di sentirsi più al sicuro sotto l’ombrello della NATO, quasi una bestemmia nel mondo comunista, nel 1977 pronuncia a Mosca, in occasione del sessantesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, un discorso in cui usa l’espressione “la democrazia come valore universale”, facendo rabbrividire i dirigenti del PCUS, impietriti. La platea, tutta formata da dirigenti comunisti, lo ascoltò in un silenzio ostile e nessun applauso seguì la conclusione del suo discorso. Poi nel 1979 si tiene il XV congresso del PCI e si propone una modifica allo statuto in cui l’espressione marxismo-leninismo come riferimento dottrinario viene sostituto da una più generica espressione in cui si dice che il PCI si rifà all’esperienza del marxismo e del leninismo. Il trattino che salda le due dottrine e ne fa una sola, quasi un corpus dogmatico, viene sostituito da una “e” che ne indebolisce la forza e colloca la tradizione in un contesto storico. Apriti cielo. Già la discussione così impostata appariva più imparentata ai sottili distinguo dei teologi di un concilio della chiesa cristiana medioevale che a un partito politico alla soglia degli anni ’80, ma nelle sezioni, almeno nella mia, si aprirono discussioni furiose (fra l’altro, nel marzo di quell’anno, la Cina aveva seppur per un tempo breve invaso il Vietnam, generando ulteriore confusione nel campo della sinistra comunista).
Intanto cerchiamo di spiegare meglio quali erano i cardini della discussione. La rinuncia al marxismo-leninismo col trattino, secondo la scuola ortodossa, significava di fatto rinunciare ad una visione alternativa del mondo per scivolare verso uno storicismo annacquato. Sembra una discussione datata e fuori tempo. E lo è certamente. Come risulta per molti versi incomprensibile il fatto che si potesse contemporaneamente discutere di compromesso storico e di marxismo-leninismo. Ma questa contrapposizione fra l’identità, quasi un bisogno di proteggersi dal mondo per dichiararsi “altro”, e la necessità di aggiornare la propria cultura politica tornerà continuamente nella storia delle trasformazioni che il Partito dovrà affrontare, anche in modo molto doloroso. Come vedremo dopo la caduta del muro e l’89, che per molti di noi fu la data di una liberazione, ma per altri un lutto insuperabile. E secondo me, sotto altre forme, è ancora presente nell’irrisolta identità del PD. Mi ricordo, ne parleremo, l’intervento di Bertinotti al Comitato Centrale in cui si doveva approvare o respingere la “svolta” proposta da Occhetto. Disse più o meno, citando il Vangelo di Giovanni, che i comunisti erano un po’ come i cristiani che “sono nel mondo, ma non appartengono a questo mondo”.
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Caro Chicco,
la storia del trattino tra marxismo e leninismo quasi me l’ero scordata. Forse perché il comunismo napoletano non si appassionò più di tanto al dibattito. Diciamo la verità. Voi milanesi eravate sì più solidi e organizzati, ma anche un tantinello più schematici, sul piano teorico. I vostri maestri erano – che so – Banfi e Geymonat, vivevate sotto la cappa del materialismo scientifico e dialettico, mentre noi eravamo più segnati dall’idealismo e dallo storicismo, secondo una linea che andava da Labriola a Gramsci ma poi finiva per approdare all’eterno don Benedetto Croce. Sarà stato per questo che non ricordo grande animosità sul tema.
Piuttosto ne ricordo un’altra di discussione su un trattino. È di molti anni dopo, risale alla guerra continua e sorda (a volte non tanto tale) tra D’Alema e Veltroni. Parliamo della breve stagione dell’Ulivo, quando – dopo le elezioni vincenti del 1996 – Prodi e Arturo Parisi (con Veltroni) cominciarono a progettare la costruzione di quello che sarebbe diventato molti anni dopo il Partito democratico, che avrebbe unito la sinistra di origine socialcomunista con quella parte di mondo cattolico proveniente dalla Dc e non inglobato nel centrodestra. Massimo D’Alema, allora segretario del PDS, si opponeva al progetto, essendo contrario a quella che poi avrebbe più volte definito “fusione a freddo”. Insomma non riteneva possibile (o forse conveniente per sé) mescolare radici e storie diverse per immaginare un’unica formazione politica, in grado di diventare uno dei due poli di quella democrazia dell’alternanza, maggioritaria e bipolare, che all’epoca in molti sognavano.
Questa battaglia politica, strategica e di potere si incarnò simbolicamente nel trattino. Ulivisti, prodiani, veltroniani lo toglievano, D’Alema lo rimetteva. Per gli uni esisteva il centrosinistra, già quasi un partito unico nei fatti, per l’altro aveva ragione di esistere solo il centro-sinistra, cioè un’alleanza tra forze distinte e diverse, che potevano sì allearsi ma senza sciogliersi in una sola formazione. Per D’Alema fu una battaglia d’identità, che perse senza mai rassegnarsi. Ancora molti anni dopo avrebbe ricordato: “Ho resistito quindici anni sul trattino”. Se poi vogliamo andare ancora più lontano, bisogna dire che il famigerato segnetto era già entrato in campo quando nacque il primo centrosinistra, quello di Moro e Nenni, negli anni ’60 del secolo scorso. La DC il trattino non lo mollava mai, serviva a ribadire la centralità democristiana: “Il centro resta il cardine: non c’è fusione, c’è collaborazione”, dichiarò Moro al congresso del 1962. Per i socialisti, la linea di separazione era solo una dolorosa concessione tattica: al congresso del 1963 Nenni rivendicò l’obiettivo di un futuro “senza trattini, senza subalternità”. Così, durante la breve stagione del primo centrosinistra, la lineetta andava e veniva. La stampa cattolica insisteva sulla formula con trattino per rassicurare i moderati, l’“Avanti!” scriveva sempre “centrosinistra” unito, per affermare pari dignità nella coalizione.
Che conclusione trarre da queste storie? Quella che, con tutte le diversità dei casi che stiamo ricordando, chi vuole mantenere i trattini intende preservare la propria identità, non vuole contaminarsi, concepisce il piccolo segno grafico come una barriera tra sé e il resto del mondo. Ma chi vive così la politica – e non solo – resta sempre sulla difensiva, non guarda con coraggio e slancio al futuro e, soprattutto, se non ha la forza di aprirsi all’altro da sé, non conquisterà mai l’egemonia, magica parolina che da sola riesce a scardinare tutti i trattini del mondo. Chi vive illudendosi di salvaguardare la propria identità, a un certo punto finisce per costruire intorno a sé dei muri di trattini talmente alti, che il mondo lì fuori neppure riuscirà più a percepirlo.
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