‘Tra la Champions e la Libertà’. Sembra il titolo di un film da sogno. Invece è la storia di un incubo, raccontata in un bellissimo libro (Cairo Editore). Quello di Michele Padovano, attaccante della Juventus che vinse l’ultima Champions juventina, a Roma contro l’Ajax, nel 1996. Ma che oggi è costretto ad ammettere come quella notte magica, con in mano la coppa delle grandi orecchie, non sia il momento più bello della sua vita. Che conosce un testacoda impensabile, solo pochi anni dopo. Quando nel maggio 2006, al termine di una cena tra amici, Padovano sta facendo rientro a casa, dalla sua adorata famiglia, che gli salverà la vita, e tre auto della Polizia lo fermano. “Michele Padovano? Lei è in arresto, ci porti a casa sua. Dobbiamo perquisirla”. Incredulità. Sbigottimento. A casa, più volte Padovano chiede agli agenti perché stiano perquisendo l’abitazione (“Una villa bellissima, che avrei poi dovuto vendere come ogni altra mia proprietà che mi ero sudato in una carriera sul campo”). Nessuna risposta. “Ci segua, lei è in arresto”. Sulla vita del campione cala il buio.

Michele Padovano, l’arresto, i cavalli e l’interrogatorio dopo 75 giorni

E la prima luce che si riaccende è quella di una cella di isolamento nel carcere di Cuneo. Altro che i riflettori dell’Olimpico, e i flash di fotografi e tifosi adoranti. “Si legga questa” gli dicono gli agenti mettendogli in mano un’ordinanza di custodia cautelare, che lo indica, in 12 capi d’imputazione, come promotore e finanziatore di un’associazione a delinquere finalizzata allo spaccio internazionale di droga. Roba da Pablo Escobar. Michele Padovano cambia ruolo in un secondo: da centravanti sul campo a difensore di sé stesso dall’accusa di essere un criminale. Tg e giornali lo massacrano. Descrivono scene da film narcos, che nemmeno nell’ordinanza trovano posto.
Cala il gelo sulla sua famiglia (“Mia moglie e mio figlio erano conosciuti come me, e da allora la loro considerazione sociale venne azzerata a causa mia”) cui è stato strappato dopo una sola domanda: “Lei conosce Luca Mosole?”. “Si certo, è un mio amico”. Manette, macchina e sbam… La porta del carcere si chiude e per 10 giorni Padovano non vede anima viva, luce e aria. Una cella, un letto, un bagno alla turca e un lavandino. Nient’altro. Isolamento, e studio dell’ordinanza. Che è la solita consueta, tristissima (per la vittima, e per chi ancora crede alla giustizia) paccottiglia di intercettazioni telefoniche. Che secondo gli inquirenti individuano un prestito di 36mila euro per l’acquisto di cavalli, che cavalli non sono. È droga. “Io avevo solo prestato a un amico dei soldi e li avevo consegnati alla moglie. Lo avrei prontamente spiegato anche al magistrato”, ricorda. Ma il magistrato si degna di interrogarlo al 75esimo giorno di detenzione in carcere.

Michele Padovano, moglie e figlio isolati dopo l’arresto

Fuori, intanto, la famiglia Padovano resta sola, gli amici spariti. Tutti, tranne due uomini veri: Gianluca Presicci, suo compagno al Cosenza, e Gianluca Vialli alla Juve (“A lui, uomo sereno e intelligente che non ci ha mai lasciati soli, dedico un bel pensiero ogni giorno, non lo dimenticherò mai”). I media fanno carne di porco e costringono il figlio, tredicenne, a rinunciare all’adolescenza serena e a crescere in fretta (“Si è rivelato un grandissimo ometto”, dice il padre). Terminato l’isolamento, Padovano viene trasferito verso un nuovo carcere. Bergamo, massima sicurezza. Lì incontra gli altri detenuti (“Mi hanno trattato benissimo, riservato grande umanità mentre altri volevano togliermela, calpestandola e umiliandomi”). Diventa l’allenatore della loro squadra di calcio, si confronta con Bonnie, suo prezioso compagno di cella con cui resterà in ottimi rapporti in una vita che da campo e spogliatoio gli chiede ora, senza un minimo perché, di dimostrarsi campione anche in carcere. Passa tre mesi in carcere. È lì che nel 2006 assiste al trionfo dei suoi amici, ex compagni calciatori con la maglia della Nazionale (“Ero molto contento per loro, anche se mi sarei atteso un telegramma, invece nulla”), poi viene spedito ai domiciliari per nove mesi, cui se ne aggiungeranno cinque con obbligo di firma ogni giorno dai carabinieri.

Padovano, la morte del padre (permesso negato) e il no al patteggiamento

Intanto però, suo padre, assai colpito dall’odissea mediatico-giudiziaria del figlio, si ammala. Quando è in fin di vita, Michele chiede al magistrato il permesso per andare a salutarlo l’ultima volta. Niente da fare. Permesso negato. Tre volte. Il tutto, sapendosi innocente. Difficile da accettare. Lo sputtanamento, la gente cui chiedi un lavoro che nemmeno ti risponde più, ma tu nel frattempo hai bisogno di soldi (“Per difendermi sono diventato povero, da ricco che ero. Ho dovuto vendere tutto”), la sensazione di disagio ogni volta che esci di casa, la paura di non poter sostenere una famiglia che ti sta sostenendo nella partita più difficile della tua vita, dove anche un pareggio male odorerebbe di sconfitta irrimediabile. Sono i frangenti tipici in cui pur di scappare da un destino pesante come un macigno, anche i più duri accettano un compromesso. Padovano no. Scarta l’ipotesi di patteggiare, quella del rito abbreviato, e azzarda: “Non è possibile che non si rendano conto dell’errore che fanno. Io voglio il processo”.

Le due condanne, la finale in Cassazione e l’errore di comprensione di Padovano…

Si arriva in aula, e Padovano con la sua difesa dimostra che quel prestito era servito a comprare un cavallo, che quei soldi erano un atto di generosità di un uomo più che benestante verso un amico che in effetti aveva davvero comprato un cavallo (come provano tra l’altro la traccia dell’acquisto, e un veterinario che depone). Eppure, il Pm chiede 24 anni di reclusione. E il giudice, a dicembre 2011, gliene commina 8, e 8 mesi. Incredulo (“Ma ancora fiducioso”), Padovano fa appello. Febbraio 2020, nuova condanna: 6 anni e 8 mesi. Padovano resta ottimista, ma è frustrato (“Dovevo uscirne in qualche modo, ma il cerchio si stringeva, dopo due condanne. Eppure, ero sicuro che prima o poi avrei vinto”). La finale, per così dire, in Cassazione, a gennaio 2021.
Ma prima, il cambio di avvocati. Padovano si affida a Giacomo Francini e Michele Galasso (“Mi hanno salvato la vita”). Ci siamo, è il grande giorno. “Ricordo fotogramma per fotogramma quella giornata. Ero teso come mai prima di allora, con la valigia pronta per eventualmente andare in carcere”. Per me è facile chiedere, scioccamente mi rendo conto, un paragone con la tensione all’apice della sua carriera (cioè la finale di Champions poi vinta con la Juve), ma Michele è categorico: “Non c’è finale che tenga quando in ballo c’è la tua libertà, la tua famiglia, la tua vita. Ricordo la telefonata del mio avvocato: ‘Ricorso accolto! E io che capisco che mi hanno condannato, e mi dispero, fino a che lui mi dice: ‘Ma no Michele, prepara lo champagne!”. La Cassazione ha annullato con rinvio. “Signori, la condanna non torna, riguardatevi bene le carte”, dice in sostanza la Corte al Pg. Atti a Torino. Nuovo appello. Due anni dopo. “C’è da attendere una vita, ancora con il macigno di una spada di Damocle su di me, ma la partita è aperta” si dice Michele.

Nel 2023 la fine di un incubo: assoluzione dopo 17 anni

Il 31 gennaio 2023, a Torino. La fine di un incubo: assoluzione perché il fatto non sussiste, e per non aver commesso il fatto. Trionfo. “Ce l’avevo fatta. Imparando che nella vita conta il rispetto per le persone che ti vogliono bene” ricorda commosso e composto Padovano, che è un uomo dal grande contegno e dal vocabolario forbito, atipico per un calciatore. Ma intanto la sua vita è cambiata, sono passati 17 anni che nessuno restituirà a quest’uomo, sua moglie (“La mia roccia”) e suo figlio (“La mia famiglia è stata tutto per me”), entrambi coprotagonisti assieme ad altri familiari di una tragedia giudiziaria.
Michele, che uscito dal carcere preventivo a Bergamo, e già in difficoltà economiche cercava lavoro misurando la diffidenza di amici e colleghi cui si offriva anche come magazziniere e che nemmeno lo ricevevano per un appuntamento, o che comunque lo liquidavano con un imbarazzato: “Ti faccio sapere” cui non seguiva nulla, ora sogna di tornare nel calcio. Mi associo al suo desiderio con un appello, per quel che vale: che la Federazione gli dia o gli trovi un lavoro. Se non se lo merita lui, non vedo chi altri.

Intanto, io continuo a domandarmi come facciano certi magistrati a dormire sereni la notte, senza vergognarsi di vite che il loro pregiudizio borioso travolge. “Io ho avuto carattere e soldi per resistere, anche se sono diventato povero immeritatamente – dice oggi Padovano -. Ma un altro non so che fine avrebbe fatto, al mio posto. Aspettiamo tutti la riforma della Giustizia, anche per i tanti magistrati bravi ostaggio di chi dice superficialmente ‘Male non fare paura non avere”. Se dovessi spiegargli che sono proprio alcuni eminentissimi magistrati a sostenere una simile tesi, gli farei male io una seconda volta. Invece Michele Padovano è sempre stato una persona per bene, intelligente e comunicativa (“I processi sono come gli incidenti stradali. Possono capitare a chiunque”, spiega egregiamente) che oggi si merita una chance. Dopo un’ingiustizia targata ‘Stato’.
A noi, a cavallo tra politica e giornalismo, resta una domanda cui rispondere: che nazione è quella in cui un cittadino non si può fidare dello Stato?