«Quando i governi delle due più grandi nazioni al mondo si incontrano, è naturale che si parli dell’intera situazione internazionale». Il commento del ministro degli Esteri indiano, Subrahmanyam Jaishankar, a margine del recente vertice a Delhi con il suo omologo cinese, Wang Yi, assume ancora più peso ora che Jaishankar è a Mosca per incontrare Sergey Lavrov. La visita rientra nella due giorni della 26esima sessione dell’India-Russia Inter-governmental commission on trade, economic, scientific, technological and cultural cooperation (Iriggc-Tec), a sua volta “secondo atto” di un meeting di inizio mese durante il quale le parti hanno aggiornato la loro collaborazione economica e strategica. In neanche una settimana, quindi, l’India si è confrontata con la Cina e poi con la Russia. Lo ha fatto perché è sulla cooperazione economico-industriale che si regge l’alleanza dei Brics. Tuttavia, alla luce delle recenti frizioni tra il premier Modi e il presidente Trump sui dazi, è evidente che il primo voglia mettere in chiaro il suo ruolo tutt’altro di gregario nei confronti degli Usa.

L’India è una nazione carica di orgoglio. L’umiliazione coloniale non è mai stata elaborata del tutto. Quando si parla delle relazioni con l’Occidente – Londra per prima, ma anche Washington – i suoi governi nutrono il sospetto di non essere trattati con l’adeguato rispetto che invece il Paese merita. Modi non manca di rivendicare lo status di superpotenza raggiunto dal Paese. Dai Brics al meno noto Quad (Quadrilateral Security Dialogue), condiviso con Australia, Giappone e Usa, l’India si considera la chiave di volta di tavoli internazionali cui siedono attori lontani geograficamente e spesso in competizione tra loro.

Ecco perché la ripresa del dialogo con la Cina e la conferma della tradizionale alleanza con la Russia hanno una doppia interpretazione. Da un lato, la crescita economica del sub-continente richiede forniture energetiche sempre maggiori. In questo caso, è il petrolio russo a venire in aiuto. Al tempo stesso, per lo sfruttamento delle sue terre rare – le riserve dell’India sono le quinte più vaste al mondo – è necessario un trasferimento tecnologico che solo Cina e Russia possono garantire. I rapporti con Pechino erano congelati dal 2020. Oggi si sono riavviati all’insegna della “pace e della tranquillità”, come recita la nota diramata al termine dell’incontro tra Modi e Wang Yi a Delhi.

Il mercato americano come riferimento

Modi manda così un messaggio a Trump: l’India non dimentica lo sgarbo dei dazi al 50% cui saranno soggetti i suoi prodotti dall’inizio del prossimo settembre. All’iniziale 25%, il presidente Usa ha aggiunto un ricarico di pari dimensione come punizione per il continuo acquisto da parte dell’India di petrolio russo. Con un saldo commerciale di circa 28 miliardi di dollari in suo favore, l’India ha negli Usa il suo primo mercato di riferimento. Lì vi esporta tecnologia, prodotti farmaceutici e tessili, ma soprattutto acciaio. Ovvero tutto quello che, nella visione Maga, deve tornare a essere prodotto nelle fabbriche americane.

L’India però non si piega. Interpreta il fare di Washington, innegabilmente muscolare, come l’ennesima riprova della prepotenza occidentale. Ed è disposta perfino a parlare con il nemico giurato cinese pur di far capire che, a Delhi, chi alza la voce non è ben accetto. È un danno collaterale del nuovo ordine mondiale che gli Usa stanno definendo. Trump è convinto di aver chiuso sei conflitti. Quello russo-ucraino sarebbe il settimo. Al netto che la pace sia tutta da confermare, come scrive il Financial Times, le scelte “disruptive” degli Stati Uniti stanno generando nuovi assetti in tutta l’Asia. Non è scontato che siano anche vantaggiosi. Specie per Washington.