Cola a picco l’inchiesta Nautilus della Procura di Salerno. Un flop di dimensioni gigantesche. Sono 72 gli indagati finiti nel mirino della Dda salernitana all’interno della maxi inchiesta che ruota attorno al business delle scommesse online. Per 33 persone i pm avevano chiesto la misura cautelare in carcere, richiesta accolta lo scorso 11 gennaio dal Gip Gerardina Romaniello ed eseguita dai carabinieri. 

Tre settimane dopo ci ha pensato il tribunale del Riesame, presieduto da Gaetano Sgroia, a ridimensionare tutto revocando buona parte delle misure di detenzione in carcere per mancanza di gravità indiziaria. Molti indagati sono passati ai domiciliari, anche coloro accusati di reati più gravi. Altri sono tornati in libertà in attesa della conclusione delle indagini preliminari. In sostanza la gip Romaniello aveva accolto in toto il sistema accusatorio ipotizzato dalla Dda della Procura di Salerno, guidata da Giuseppe Borrelli, convalidando ogni propria decisione dopo gli interrogatori di garanzia. Sono circa 700 le pagine dell’ordinanza, 20mila le pagine di informativa allegate. Un lavoro immane, durato anni ma che sembra già vacillare.

I capi di imputazioni variano dall’associazione a delinquere semplice a quella di stampo mafioso (clan dei Casalesi), intestazione fittizia di beni, riciclaggio, reimpiego di denaro provento di delitto in attività economiche, autoriciclaggio. Leggendo le carte si inciampa in vicende investigative curiose. C’è un’intercettazione che vede coinvolto L.T., uno degli imprenditori-protagonisti della maxi inchiesta. Intercettazione alla quale, come sottolinea il penalista Andrea Castaldo (che difende l’imprenditore in questione) «nell’ordinanza di custodia cautelare si conferisce spessore indiziario». Nelle motivazioni presentate al Riesame, con le quali si chiedeva di annullare la misura cautelare in carcere, si legge che l’unico riferimento a uno dei reati contestati è relativo a una conversazione chat tra due coindagati, uno dei quali deceduto, che dicono: hanno fatto una società di distribuzione di caffè a Panama.

E sai chi è socio? “G”. L’unico elemento a sostegno della condotta incriminata sarebbe, quindi, la frase citata nella quale si parla del socio “G”, il che, scrivono i legali: nella prospettazione incriminata comporterebbe che “G” è il signor L.T. ma per la verità l’iniziale “G” non corrisponde al nome di battesimo di L.T., mentre nella vicenda in questioni altri condividono la lettera “G” con la loro identità. E il fatto che porta a riflettere ancora è che nell’inchiesta in questione ben 16 indagati hanno il nome o il cognome che inizia con la lettera “G”.

«Le grandi inchieste – commenta Andrea Castaldo, penalista e professore di diritto penale dell’Università di Salerno – sono una catena di montaggio dagli ingranaggi delicati, che spesso si inceppano. Intendo dire che presuppongono competenze diversificate, rigida organizzazione, accurate verifiche. Una premessa che tuttavia si scontra con la fisiologica complessità della maxi-indagine: il numero degli indagati, la molteplicità delle contestazioni, le intercettazioni a strascico, la prassi disinvolta di riversare tutti gli atti senza filtro preventivo vanno a detrimento della chiarezza e della specificità dell’accusa. Il rischio purtroppo concreto è quello che il gip, di fronte alla mole della documentazione e al ruolo carico si appiattisca sulle richieste della Procura, sbiadendo la funzione di controllo che il codice gli assegna. Ecco perché sarebbe opportuna la costituzione di un G.M.C. (giudice della misura cautelare) collegiale, di provata esperienza e maturità». E così spesso assistiamo a maxi inchieste nei quali gli indagati vengono colpiti dalla misura più afflittiva possibile, cioè il carcere, e poi tutto si ridimensiona spesso fino a ridursi a una bolla di sapone che scoppia. Lasciando dietro sé però danni inenarrabili.

«La spia di evidenti disfunzioni diventa allarmante allorquando, come in questa inchiesta, si assiste a frettolose conclusioni che dovrebbero restare mere congetture da approfondire in fase di indagini preliminari senza comportare il carcere. Soprattutto – conclude Castaldo – quando ad essere colpiti sono individui che hanno già subito analoghe esperienze, concluse con sentenze di assoluzione passate in giudicato e che hanno prodotto conseguenze drammatiche sul piano umano, sociale, economico. E la circostanza che il Tribunale del Riesame abbia fatto giustizia annullando completamente la misura custodiale dimostra che il sistema è in grado di produrre anticorpi, anche se resta l’amarezza per quanto accaduto».

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Giornalista napoletana, classe 1992. Vive tra Napoli e Roma, si occupa di politica e giustizia con lo sguardo di chi crede che il garantismo sia il principio principe.