La letteratura alla periferia dell’Impero BritannicoIrlanda, Canada, Nuova Zelanda, Scozia, Australia, Sud Africa – è stata sempre percepita come ancillare a quella della madre patria. In particolare, le scrittrici hanno dovuto elaborare questa differenza cercando una nuova terra letteraria e una voce propria. La lingua, che sarebbe dovuta essere il collante più efficace, si è rivelata spesso un ostacolo all’espressione di una cultura necessariamente diversa da quella inglese, perché influenzata dal territorio in cui si è sviluppata. Se è vero che la lingua è l’espressione della cultura di un popolo, e che la cultura è lo specchio di un Paese, gli scrittori di lingua inglese hanno sicuramente dovuto individuare un nuovo baricentro geografico-letterario che non fosse l’Inghilterra.

Nell’iconografia ottocentesca alcuni vedevano l’Irlanda-donna in fuga dall’Inghilterra-uomo che la rincorre per catturarla. Il colonialismo inglese è iniziato dalla terra più vicina e più povera, e a quella terra ha imposto lingua e religione. Per le autrici, si è trattato di una doppia emancipazione, sempre di stampo politico: la riappropriazione della propria identità nazionale e la rivendicazione del proprio diritto a scrivere. Ed è esattamente a questo incrocio che si colloca Emilie Pine con i suoi Appunti per me stessa (traduzione di Ada Arduini, ed. Rizzoli). In un’intervista al Guardian ha dichiarato: «Ho scritto il saggio che avrei voluto leggere». Docente di Teatro Moderno allo University College di Dublino, Pine ha spogliato di qualsiasi elemento di drammatizzazione la sua scrittura.

La sua è la testimonianza spietata di una donna irlandese moderna, che ha vissuto in una famiglia irlandese diversa da tutte le altre: «Quando i miei genitori, da eccentrici quali erano, fecero una festa per annunciare la fine della loro relazione, uno dei loro amici si inginocchiò sul pavimento dell’ingresso e li implorò di rimanere insieme. E se una coppia si separava, i coniugi rimanevano ancora in contatto, ancora legati, ancora sposati. Non c’era altra scelta. Perché in Irlanda la costituzione vietava il divorzio».

In questo libro, Pine scrive del padre e della madre, della malattia del padre, di come si è reinventata figlia del padre prendendosi cura di lui, e di come, implacabilmente, inevitabilmente ha dovuto alla fine ammettere che il suo modello è sempre stata la madre. Ma Pine scrive anche di gravidanza, eterno argomento tabù nell’Irlanda cattolica che ha legalizzato l’aborto solo nel 2018 (nell’Irlanda del Nord, la legge è entrata in vigore solo nel 2019): prima di allora, le donne erano costrette a subire aborti clandestini oppure – le più fortunate e le più abbienti – potevano andare ad abortire in Inghilterra.

È di una precisione chirurgica, l’autrice, quando descrive la sua gravidanza, la perdita del bambino, la voglia di riprovare a tutti i costi. Il corpo non la asseconda, le sfugge. Si sottopone al calvario della fecondazione in vitro, si sente difettosa, la sua immagine si smargina davanti ai suoi stessi occhi. Continua a essere diversa, figlia di una famiglia diversa; donna diversa perché non riesce a essere madre. Poi, dopo aver saputo che madre non lo diventerà mai, prende una decisione: «Non avrò mai un bambino. Questo fatto mi provoca ansia. E un senso di lutto. E felicità…. Io scelgo di essere felice. È una felicità imperfetta, non scevra di dolore. Contiene un lutto, ma per questo è ancora più forte». Pine sposta completamente il baricentro della sua vita e diventa paradigmatica: la sua vita è l’Irlanda che diventa nazione. «Ho smesso di giudicarmi in base a un’assenza. Ho smesso di usare la parola “ fallimento” riferendomi al mio corpo. Ho smesso di vivere e scrivere quella storia».

Ci sono, in questo saggio, echi dell’altissima Annie Ernaux, e non solo per il riferimento alla maternità e alla famiglia. Ma c’è da distinguere tra le motivazioni: se Ernaux ha la necessità di usare le parole per trafiggere e aprire varchi, Pine con la sua lingua ricreata – e tradotta mirabilmente da Ada Arduini – vuole unire e ricomporre, riuscendo pienamente a regalare un punto d’incontro tra popolo e nazione. Nella lingua si riconoscono il passato e la cultura di un Paese, segni di distinzione che per secoli sono stati negati all’Irlanda. In questo viaggio nella vita – in questo libro che Pine definisce, minimizzando, notes to self – si riproduce l’epopea irlandese, dalla impietosa occupazione straniera alla sofferta emancipazione: e non poteva che scriverlo una donna – dato che da sempre la figura femminile è quella con cui l’Irlanda s’identifica (uno dei romanzi più popolari, più letti e più conosciuti del romanticismo irlandese si intitola The Wild Irish Girl).

Il cuore del saggio di Pine coincide con la riappropriazione del sé, ma anche del corpo, fisico, civile e territoriale: «Ho paura di confessare tutte le cose difficili, le cose brutte, le cose che non possono piacere. Ho paura di espormi. Ho paura di suscitare pietà. O risentimento. O che alzino la voce con me. Ho paura di essere una donna scomoda. E di non esserlo abbastanza. Ho paura. Ma lo faccio comunque». E questo, tutte queste parole, una in fila all’altra, tutto il senso e tutto il significato cui danno vita, la forma e la sostanza, tutto questo è – e non potrebbe non essere – una nazione intera.