Le truppe israeliane sono a Gaza City, pronte per l’assalto finale, mentre oltre un milione di civili dovrà fuggire. Durante una visita alla Divisione di Gaza, Benjamin Netanyahu ha ribadito la linea che da mesi guida la sua leadership: la guerra non si ferma, ma va di pari passo con il negoziato. Due obiettivi intrecciati, da cui dipendono la sua stessa sopravvivenza politica e la sicurezza di Israele. Dietro le sue parole, però, ci sono i numeri di un’operazione massiccia. Lo Stato ebraico ha appena autorizzato la mobilitazione di 60mila riservisti, che si aggiungono ad altri 20mila soldati già in servizio prolungato: in totale, 80mila effettivi destinati alla seconda fase dell’operazione per strappare ad Hamas il controllo della Striscia.

Sul fronte opposto, l’Intelligence israeliana stima ancora 40mila combattenti attivi. Nonostante le perdite inflitte dai raid e dai combattimenti urbani, Hamas resiste: fonti statunitensi calcolano che tra 10mila e 15mila nuovi miliziani si siano uniti alle Brigate al-Qassam dall’inizio della guerra, compensando buona parte delle perdite stimate in 9mila unità. Un dato che rivela quanto sia complessa la sfida: l’eliminazione totale di Hamas resta, al momento, complicata. La variabile più delicata è quella degli ostaggi. Restano 50 persone in mano ad Hamas, almeno 28 delle quali considerate morte. Ogni tentativo di negoziato passa da qui: senza progressi sulla liberazione, Netanyahu rischia di perdere il sostegno dell’opinione pubblica israeliana, divisa tra richiesta di sicurezza e pressioni delle famiglie. Lo dimostra la grande manifestazione nazionale del 17 agosto.

Il bilancio della guerra, però, non è solo militare. Si moltiplicano gli appelli a una soluzione che non sia affidata soltanto alle armi. Netanyahu, invece, ripete che la priorità resta eliminare Hamas e liberare gli ostaggi, convinto che ogni concessione anticipata significhi rafforzare i nemici di Israele. La posizione del premier va quindi letta su due piani. Sul terreno, l’Idf assalta Gaza City come simbolo della determinazione israeliana a porre fine al potere militare di Hamas. Sul piano politico, Bibi tenta di bilanciare l’immagine di “uomo forte” con quella di leader capace di riportare a casa gli ostaggi. Una contraddizione solo apparente: per lui, i due obiettivi “vanno di pari passo”.

Israele schiera una forza enorme, mai vista negli ultimi decenni. Hamas resiste con risorse insospettate, alimentando l’idea di una guerra destinata a durare. In mezzo, le vite degli ostaggi, simbolo di un conflitto che non conosce tregua. Netanyahu sa che la sua credibilità politica si gioca qui: se piegherà Hamas senza liberare gli ostaggi, sarà accusato di cinismo. Se li libererà senza una vittoria militare, di debolezza. Per questo insiste: “La conquista di Gaza e la liberazione dei prigionieri devono procedere insieme”.

Intanto crescono le pressioni internazionali dopo l’autorizzazione dell’insediamento E1 a est di Gerusalemme. Una decisione che, secondo 21 Stati – tra cui l’Italia – sarebbe illegale e allontanerebbe la prospettiva dei “due popoli, due Stati”. È l’azzardo politico più rischioso del premier, stretto tra guerra, ostaggi e una comunità internazionale sempre più critica. Ma è una partita che deve essere giocata per non soccombere ai terroristi.

Giuseppe Altamore

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