Qualche settimana fa il Guardian ha dedicato all’Italia l’ennesimo lungo pezzo intitolato: “Un successo per la propaganda del Cremlino”. Tema tristemente noto al quale sono state offerte spiegazioni disparate: dall’influenza culturale russa, all’anti-americanismo mai sopito, alla copertura mediatica. Ci sarebbe però un altro imputato che finora è uscito indenne e molto rafforzato negli ultimi due anni di guerra: l’analisi cosiddetta geopolitica che viene spacciata nel dibattito pubblico italiano. L’offerta geopolitica nostrana ha tanti meriti apparenti: è intuitiva e cinematica, grandiloquente e sciamanica. Ma la sua pochezza metodologica, strategica e morale, ha fatto e continua a fare un disservizio al dibattito pubblico nel nostro Paese. La vulgata geopolitica restituisce una specie di fatalismo cosmico nel quale tutti si possono riconoscere (come scriveva Paul Valéry: “Speriamo vagamente, ma abbiamo terrore precisamente”).

Ascrive ai popoli dei tratti psicosomatici generalmente stereotipati: dalla Santa Madre Russia al “Gran Turco” (titolo di un recente numero di Limes, la bibbia mensile del geopolitico italiano). Le grandi potenze sono tali grazie ad un’aneddotica selettiva, impacchettata come antropologia, ma che in realtà ricorda quella che gli anglosassoni chiamano “pop psychology”.
Metodologicamente l’analisi geopolitica nostrana è un impianto appariscente, ma dai piedi di argilla. Rifugge dal liderismo ma ignora il sostrato domestico, economico e sociale, che porta al processo decisionale. Fa sponda col populismo che demonizza le élite, sorvolando però sul fatto che l’interesse nazionale (tema in realtà ai nostri molto caro) si plasma e si trasforma come compromesso di interessi, spesso particolari, tra i cosiddetti corpi intermedi. Questa lente geopolitica guarda al mondo con una malafede imbarazzante.

Ci viene spiegato come l’Italia con gli altri europei siano province o nel migliore dei casi clientes dell’impero americano, che ci tengono a bada dal ‘45 con qualche migliaio di truppe stazionate sul nostro territorio. Non credo sia difficile confutare che i paesi europei siano alleati agli Stati Uniti non per sudditanza o mera convenienza, ma su una base valoriale e strategica (peraltro ribadita a ogni tornata elettorale). Una base spesso anche contestata: dalla guerra in Iraq a cui Francia e Germania si opposero aspramente per arrivare, più di recente, all’orientamento composito dell’Unione Europea verso la Cina. Ci sono poi le falle etiche che corteggiano il cinismo in modo deplorevole e spesso vigliacco. Nel caso dell’Ucraina, l’assioma geopolitico relega una popolazione di 44 milioni di cittadini europei a esseri umani di serie B, senza volontà propria e alla mercé di un impero aggressore con licenza di “sventrare” la vittima. Una crudeltà verbale gratuita e amorale, che ignora crimini di guerra, calpesta soprusi umanitari, e spesso nasconde una forma tossica di machismo alfa.

La lente geopolitica può essere rilevante nel senso strettamente etimologico del termine: la comprensione di scelte di politica internazionale in un contesto geografico saliente. L’Italia nel Mediterraneo, la Danimarca nell’Artico, la Turchia nel Mar Nero: la valenza di questi paesi nei rispettivi quadranti è innegabile e immutabile, come lo è la geografia. Ma non a caso la geopolitica ha poco o nulla da dire sulla catastrofe climatica o sulla rivoluzione digitale che stanno cambiando le nostre vite. La ragione è molto semplice. Sono dinamiche transnazionali, anche qui nel senso letterale del termine: trascendono lo Stato nazione. La reductio ad absurdum delle relazioni internazionali (o dello scibile umano) al fattore geopolitico impoverisce il dibattito pubblico. In Italia sembra vigere una par condicio per la quale questa interpretazione riceva uno spazio spropositato rispetto al suo reale potere esplicativo e interpretativo. Talvolta è l’unica voce offerta. Ma pluralismo non vuol dire dare spazio a tutte le voci in modo equo. La priorità dovrebbe essere di restituire ai cittadini un senso della complessità delle dinamiche internazionali. La complessità purtroppo non fa audience, ma questa è un’altra storia.

Fabrizio Tassinari, Direttore esecutivo della Florence School of Transnational Governance

Fabrizio Tassinari

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