Il provvedimento di espulsione di soggetti pericolosi per la sicurezza nazionale è uno degli strumenti di prevenzione più efficaci nella lotta al terrorismo. È un tassello derimente del modello italiano per una guerra che, non casualmente, ci ha messo al riparo da tanti massacri, ultimo quello australiano. Un provvedimento di espulsione non nasce – così come lasciano percepire i media in questi giorni – da una o più dichiarazioni pubbliche del soggetto in esame, nel nostro caso l’Imam di Torino, ma è la fase conclusiva di un esame lungo ed accurato condotto dagli investigatori del settore, nello specifico dagli eredi di chi ha sconfitto il terrorismo brigatista e la mafia.

In altre parole, la decisione di espellere viene adottata un attimo prima che il soggetto passi alla fase operativa, a dar fuoco alle polveri. Questo a conclusione di un’istruttoria particolarmente accurata dove nulla è lasciato al caso: le frequentazioni in rete vengono monitorate con cura, in tutte le loro declinazioni, dall’autoindottrinamento ai fori di incontro specifici, ai contatti, all’editoria del settore e così via; viene registrata la frequenza degli accessi, indice anche questo di radicalizzazione, come pure la profondità della navigazione per sfuggire ai controlli. All’indagine digitale viene poi associata quella tradizionale, per valutare i comportamenti e gli indicatori peculiari di pericolo. E quando l’esperienza di chi indaga – di qualità impareggiabile, come si è detto – porta a valutare un pericolo imminente, si procede all’arresto o all’espulsione.

Sarebbe curioso sapere su quali basi invece il magistrato ha ritenuto inattendibile, vanificandolo, questo lavoro preparatorio. Che certamente è occorso. Il problema è serio. Bisognerebbe coinvolgere la magistratura in una qualche forma di coordinamento preventivo o contestuale, un’attività che però in Italia non ha mai visto la luce. A dire il vero, in ambito CASA (Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo, il consesso di coordinamento costituente, altro fattore chiave nella lotta al terrorismo), la magistratura ha preso per un certo periodo parte ai lavori, ma solo per la parte carceri, per il contributo alle attività di prevenzione che quel mondo fornisce. Mentre invece non si è ritenuto, forse a buona ragione, che la giustizia integrasse l’alto consesso di sicurezza.

Ma ora le cose sono cambiate. Ora è scontro aperto ad ogni comportamento dei magistrati che possa avere un qualche impatto politico, vero o presunto. Passi pure fare sistematica terra bruciata intorno (la tolleranza del sistema è ormai più che robusta), inaccettabile quando in ballo ci sia la sicurezza dei cittadini. Allora forse è il caso di pensare a qualche forma di coordinamento tra poteri di norma separati, magari inserendo nel CASA un magistrato della Procura Nazionale Antiterrorismo, a garanzia, per chi non ne fosse convinto, dell’esaustività delle indagini preventive. O, in alternativa, rendere permeabili gli uni agli altri e collaborativi, in qualche altra forma, il mondo della Giustizia e le istituzioni preposte alla sicurezza dello Stato. Non sfugge l’anomalia di voler strutturare sinergie forzando le norme che regolano il funzionamento dello Stato; tuttavia la posta in gioco è troppo alta per gettare nel calderone della contrapposizione tra istituzioni anche la sicurezza dello Stato.

Leonardo Tricarico

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