Giovanni Orsina, politologo, è professore ordinario di Storia contemporanea e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss di Roma. È tra le voci più autorevoli nello studio delle trasformazioni delle democrazie occidentali e delle dinamiche tra politica, società e istituzioni.

Professore, in Francia sembra scricchiolare l’architettura repubblicana: Macron è in crisi, RN e Mélenchon avanzano. Che scenario si apre?
«In Francia, come altrove, non si tratta semplicemente di una crisi delle democrazie, ma di una crisi più profonda della dimensione politica. Questo è il nodo centrale: i cittadini votano un leader, ma quel leader non dispone più degli strumenti per mantenere le sue promesse o rispondere davvero alle domande degli elettori. A partire dagli anni Novanta e nei primi Duemila, la politica è stata progressivamente svuotata, subordinata a logiche economiche, vincoli giuridici e soprattutto a una crescente tecnocrazia. La gestione delle istituzioni pubbliche è passata in gran parte a organismi tecnici, riducendo la capacità della politica di guidare i processi. La democrazia, in questo modo, si è impoverita non perché è venuto meno il voto, ma perché il voto ha perso la sua efficacia trasformativa».

Può farci un esempio concreto di questo svuotamento?
«È sufficiente guardare alla moltiplicazione delle authority indipendenti, al ruolo sempre più autonomo delle banche centrali, alla trasformazione manageriale delle pubbliche amministrazioni. La politica, di fatto, ha ceduto spazio e competenze ai tecnici, finendo per diventare essa stessa una tecnocrazia. Anche laddove il potere è rimasto formalmente nelle mani delle istituzioni pubbliche, spesso non sono stati i politici eletti a esercitarlo, ma organismi tecnici e apparati amministrativi. Questo ha tolto legittimazione e forza alla dimensione politica, rendendo fragile il rapporto tra cittadini e rappresentanti».

Vale anche per il macronismo? Macron viene dal mondo delle banche più che dalla militanza politica…
«Sì, in un certo senso il macronismo è stato proprio questo: la risposta dell’establishment tecnocratico a una crisi che ormai premeva da più parti. Quando in Francia sono esplose le proteste, i populismi, le spinte dell’estrema destra e dell’estrema sinistra, l’élite ha reagito candidando all’Eliseo il suo rappresentante più brillante».

Quel ciclo è destinato a finire?
«Quel ciclo oggi è chiaramente in chiusura. Non solo perché Macron non ha mantenuto molte delle sue promesse, ma soprattutto perché non si può rispondere a una domanda di maggiore democrazia accentuando il potere delle tecnocrazie. In Italia la traiettoria è stata diversa, ma il problema simile: un decennio populista aperto e chiuso da governi tecnici: prima Monti, poi Draghi. La politica oscilla: o scivola verso le estreme, oppure si rifugia nella tecnocrazia. Quello che manca è proprio il centro, l’asse che aveva garantito stabilità alla Prima Repubblica italiana e alla Quinta Repubblica francese. E non è un caso: i partiti centristi, dopo il 1989, hanno progressivamente delegato il potere a norme, economie, procedure sovranazionali, integrandosi nell’ordine globale ma svuotando se stessi».

Possiamo dire che il centro è stato vittima del suo stesso successo?
«Sì, il centro si è svuotato da sé. In un certo senso, possiamo parlare di un vero suicidio della politica. Un’abdicazione dovuta alla consunzione degli obiettivi. Negli anni Novanta e nei primi Duemila, tutti i partiti – di centro-destra e di centro-sinistra – erano favorevoli al libero mercato, ai diritti, all’autonomia delle banche centrali, alla moltiplicazione delle authority, all’integrazione europea. La differenza tra schieramenti era più retorica che sostanziale. Quando la domanda di politica è tornata a emergere, soprattutto dopo la crisi del 2008, il centro era ormai desertificato. Ecco perché governi tecnici come quello di Draghi diventano un paradosso: tutti i partiti dentro, ma a governare non un politico, bensì un tecnico. È la prova che la politica ha abdicato».

E oggi, professore? Che fase stiamo vivendo?
«Oggi siamo dentro un ciclo di ripoliticizzazione. È evidente: la politica sta riprendendo spazi che aveva perduto. Basta guardare al discorso di Xi Jinping di pochi giorni fa: è un discorso di potere puro, di politica nella sua accezione classica. La stessa dinamica la ritroviamo con Putin, con Modi e in generale nello scontro tra Occidente e non-Occidente. È un ritorno della politica a scapito del diritto internazionale, che appare sempre più debole, e a scapito dell’economia, con dazi, golden power, politiche industriali aggressive. Questo ritorno della politica globale non può che avere un riflesso a livello nazionale. Il problema, però, è che la ripoliticizzazione è stata lasciata soprattutto alle estreme, che si nutrono meglio di conflitti e contrapposizioni frontali».

Questa ripoliticizzazione oggi passa anche da Gaza?
«Sì, in parte sì. Gaza è diventata un simbolo, un collante identitario. Non è solo la tragedia in sé, ma il modo in cui riesce a riattivare vecchie passioni politiche, soprattutto a sinistra. Il fervore con cui oggi si scende in piazza per la Palestina non riguarda solo i gazawi, ma è la riscoperta di una battaglia che appare universale, quasi il Che Guevara dei nostri tempi. Naturalmente bisogna capire se un partito possa reggersi solo su Gaza, ma è innegabile che questa crisi sia stata assorbita dentro il processo globale di ripoliticizzazione, trasformandosi in catalizzatore di passioni e identità. Gaza diventa così il luogo sensibile in cui si intrecciano conflitti locali e dinamiche geopolitiche mondiali, contribuendo a risvegliare pezzi d’Occidente che sembravano ormai disillusi o apatici».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.