Il professor Manlio Graziano insegna a Sciences Po e alla Sorbonne di Parigi. Analista e saggista, è tra i più attenti osservatori delle dinamiche mediorientali, con uno sguardo che intreccia storia, politica e geopolitica globale. Nel 2024 è uscito in libreria Disordine Mondiale, con Mondadori.

Professore, cosa ne pensa di questo accordo di pace?
«Per il momento non vedo un testo paragonabile a un accordo di pace. Vedo una bozza con ipotesi su cui stanno ancora lavorando, con punti ancora molto aperti a breve, media e lunga scadenza».

L’intendimento a finalizzarlo, però, c’è.
«Da analista non mi occupo della buona volontà. Devo valutare i fatti. Se dietro c’è anche la buona volontà lo vedremo».

Ha confermato il loro sì anche il mondo arabo: la Turchia, il Qatar, l’Egitto…
«Tanto per cominciare, il mondo arabo non esiste in quanto tale. I paesi arabi sono uniti solo dal fatto di essere divisi tra loro. E gli arabi, a partire dagli egiziani, hanno sempre usato gli abitanti di questa regione come pedine per i loro giochi interni».

Lei vive in Francia, viaggia nel mondo. Ha visto altrove la stessa attenzione per Gaza e oggi per la Flotilla che c’è in Italia?
«No davvero. Ho scoperto con grande sorpresa, solo in questi giorni, quanto in Italia siate ossessionati dalla vicenda della Flotilla, di cui in Francia si è scritto poco e nel resto d’Europa ancora meno».

Perché, secondo lei?
«Perché usate Gaza e la Flotilla come strumento di campagna elettorale e la ingigantite per farne una cosa importante per tutti. Se vogliono perdere le elezioni a tutti i costi o aumentare il numero degli astensionisti, è un problema loro. Ma la trovo una scelta fuori da ogni logica politica: gli elettori italiani vogliono parlare del loro paese, delle infrastrutture, non della Flotilla. In ogni caso, questo dimostra una volta di più che dei palestinesi non interessa nulla a nessuno: vengono usati come strumento di propaganda».

MANLIO GRAZIANO, POLITOLOGO, AUTORE DEL LIBRO

Torniamo al piano Trump-Netanyahu, che prevede anche l’autodeterminazione dei territori palestinesi. Come vede la soluzione dei due popoli e due stati?
«Sarebbe un disastro. Non solo oggi non esiste uno stato palestinese, ma non ha alcuna possibilità di esistere. Gaza è rasa al suolo. La Cisgiordania è divisa in tre zone, ridotta a bantustan, continuamente sotto pressione di esercito e coloni israeliani. Inoltre i palestinesi stessi sono divisi: Hamas e ANP si odiano, e ci sono fazioni in guerra tra loro. La famosa guerra civile tra Hamas e OLP dimostrò quanto fosse fragile questa ipotesi. Parlare di due stati è impossibile. Se mai, quella formula non porterebbe alla pace ma a una nuova escalation, come dimostra il precedente della partizione dell’India nel 1947».

E la prospettiva di uno Stato unico, un grande Israele multietnico?
«Quella sarebbe la soluzione ideale, se ci fossero le condizioni. Ho sempre pensato che il modo migliore per ridurre gli odi reciproci sia mescolare le popolazioni: quando ci si conosce davvero, l’altro non appare più come un nemico. Ma oggi è irrealistico. I massacri di questi due anni non si dimenticano facilmente. E penso che l’operazione militare condotta da Netanyahu sia un suicidio per Israele e una minaccia per gli ebrei di tutto il mondo».

Tra pochi giorni ricorreranno i due anni dal 7 ottobre 2023, il più grande massacro di ebrei dopo la Shoah. Che segni lascia?
«Lascia 52 ostaggi ancora a Gaza, lascia un antisemitismo risorgente in Europa e nel mondo. Non ci siamo mai liberati da 1700 anni di antigiudaismo: quel retaggio riaffiora sempre. È anche la ragione per cui ritengo oltraggioso usare il termine “genocidio”: applicarlo al conflitto di oggi serve a relativizzare la Shoah. E la Shoah è unica, nella sua tragicità, senza paragoni possibili».

Eppure ci sono guerre dimenticate, come quelle in Sudan o in Etiopia, di cui l’opinione pubblica non vuole sapere.
«È vero. Guerre terribili, con milioni di morti, bambini soldato, fame. Ma non interessano a nessuno. Il Medio Oriente, invece, è diventato un terreno di scontro politico e simbolico. Qui si gioca anche la memoria dell’antisemitismo europeo, e il peso delle scelte fatte da grandi potenze durante la Guerra Fredda. L’Urss, ad esempio, fu tra le prime a sostenere la nascita di Israele nel 1946, e nel 1956 si schierò insieme agli Stati Uniti contro Israele. Solo dal 1967 gli Usa hanno fatto di Israele un alleato stabile. È una storia complessa, semplificata e strumentalizzata. Oggi vediamo i “nipotini” dei militanti degli anni Sessanta che gridano slogan come “dal fiume al mare”: la sostanza non è cambiata. I palestinesi restano usati come pedine, e l’antisemitismo rimane una costante della nostra civiltà».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.