Papa Francesco e il j’accuse contro il sistema giustizia

Il pontefice ha incontrato i componenti del Csm pochi giorni or sono nell’aula Paolo VI. L’Osservatore romano (8 aprile, pagina 8) ha pubblicato per intero il discorso di papa Francesco e, non si può negare, che la lettura di quelle parole avrebbe fatto un gran bene, più che alla toghe, a una politica, disorientata e pasticciona, chiamata a scardinare il Sistema che si annida tra le mura della magistratura italiana. Un risultato immane che la riforma in discussione in queste ore non sarà mai in grado di assicurare, a voler essere sinceri. Le poche proposte su cui si sono accapigliate le forze politiche non riusciranno, infatti, a spostare di un millimetro la magistratura italiana nella direzione di quello che dovrebbe essere l’unico vero obiettivo di una riforma, ossia migliorare la condizione dei cittadini che dei processi sono – talvolta per scelta, talaltra per costrizione – la parte debole.

Purtroppo è del tutto assente nella percezione dei problemi sul tappeto un dato fondamentale: si potrà costruire a tavolino il più perfetto e garantito dei processi penali; si potrà introdurre il più efficiente e rapido dei processi civili, ma è la stessa qualità del prodotto giudiziario ad apparire compromessa. E non solo perché le regole siano spesso astruse, prive della valutazione d’impatto sulle strutture organizzative o meramente illuministiche e vagamente ideologizzate, ma per la ragione che si riversano su una corporazione stanca, sfilacciata e indebolita. La condizione psicologica della magistratura italiana è ai minimi storici. Carichi di lavoro logoranti, gerarchie burocratiche, regole dell’autogoverno vocate al controllo minuzioso e cavilloso finanche della vita privata dei singoli hanno relegato la parte migliore delle toghe italiane in un anfratto claustrofobico che nulla ha a che vedere con l’orizzonte etico, arioso e puro, descritto dal papa. L’esercizio libero, sereno, indipendente delle funzioni giudiziarie – che dovrebbe costituire l’unico obiettivo cui un legislatore assennato deve puntare – è soffocato da prescrizioni moraleggianti, minacciose, oblique, lasche, ondivaghe, pronte a essere applicate ai nemici e manipolate per gli amici.

Una gabbia anaerobica che spinge in secondo piano il processo e finanche la decisione, rispetto a istanze di omologazione corporativa a sfondo moralistico. Una tirannia di micro-regole che trascolora la soggezione dei giudici alla sola legge (articolo 101 Costituzione) in una subalternità, a tratti dispotica, verso il Csm il quale è portato – dalla perenne timidezza del legislatore su questo versante – a sconfinare negli anfratti della vita, e non della sola carriera, delle toghe. Comprendere la dimensione asfittica e omologante in cui – da anni ormai – persino l’autogoverno ha ricacciato i magistrati italiani nel tentativo di contenere le crisi periodiche del sistema giudiziario sarebbe un passo importante per giungere a una vera riforma dell’assetto della giurisdizione, prima ancora che delle regole dei processi. L’indipendenza e l’autonomia sono state corrose in gran parte dall’interno e non da un nemico alle porte, invero sempre più debole e subalterno, come la vicenda Palamara dimostra.

È purtroppo una traiettoria difficile da mutare. Alla crisi di credibilità si risponde con prescrizioni interne sempre più serrate e arcigne, proliferando un nugolo di commi e cavilli. La recente circolare del Csm sugli incarichi extragiudiziari contiene profili che sarebbero meritevoli di approfondimento in un corso di sociologia dei sistemi sociali. È una circolare certamente frutto di un compromesso e non saranno mancate voci distoniche. Ma restituisce l’immagine nitida dell’autorappresentazione che la magistratura italiana ha di sé e della scarsa considerazione che nutre verso la capacità delle toghe di resistere alle proposte e alle lusinghe del complesso mondo dei convegni, pubblicazioni, incontri, corsi, incarichi di docenza che si aggira intorno alla giustizia. Per carità, il Csm mantiene integra la libertà di manifestazione del pensiero, garantisce la collaborazione con riviste, enciclopedie, la scrittura di saggi, libri e cose del genere. Andrebbe tutto bene se non si trascurasse di considerare quante carriere, quanto cooptazioni ministeriali si realizzino da anni proprio all’ombra di quelle “gratuite” collaborazioni e frequentazioni in cui – talvolta – si intravedono le tracce di quelle lobby e di quelle congreghe che condizionano settori non secondari della magistratura italiana. Né la questione muta se si guarda ai circoli di legalità o alle associazioni antimafia in cui, parimenti, ci si adopera per la selezione e la promozione degli adepti e dei simpatizzanti e per sospingerli verso i vertici di uffici e di strutture amministrative di prestigio con un nugolo di iniziative, per carità, tutte lodevoli.

Un equilibrio difficile da raggiungere, è chiaro ed è anche evidente che il Csm fa quanto possibile. Ma il legislatore avrebbe un duplice dovere: certo quello di svincolare la magistratura da ogni condizionamento esterno, ma anche quello di interdire ai furbi e agli ambiziosi la ricerca spasmodica di un consenso fuori dalle strutture giudiziarie in circoli e circuiti che – con la scusa dell’elaborazione culturale e scientifica o dell’enfasi legalitaria – invero cooptano, selezionano, promuovono, difendono, spesso, dallo stesso Csm che pur avrebbe diritto a chiedere conto di qualche comportamento. Il consenso correntizio è un male, ma quello delle lobby è venefico. Difficile dire se esista la loggia Ungheria, ma se un giorno la dovessero scoprire non dovrebbe meravigliare se abbia affiliati nelle redazioni di qualche giornale, di qualche rivista o in qualche associazione, università o congregazione varia. Papa Francesco al Csm: «Il processo a Gesù è emblematico: il popolo chiede di condannare il giusto e di liberare il malfattore. Pilato si domanda: “Ma che cosa ha fatto di male costui?”, poi però se ne lava le mani. Quando si alleano i grandi poteri per auto-conservarsi, il giusto paga per tutti».