La bozza di riforma del patto di stabilità elaborata dalla Commissione europea non è piaciuta al governo italiano. Da Palazzo Chigi al ministero dell’Economia, i commenti (più o meno) ufficiali del governo di centro destra lasciano trasparire chiaramente non solo la frustrazione per non aver ottenuto nessuna concessione sostanziale sulla flessibilità di spesa in assenza di riforme strutturali, ma soprattutto per lo sbarramento creato dalla Commissione alla possibilità dei governi di fare promesse irragionevoli agli elettori.
Se la proposta della Commissione sarà ratificata dal Consiglio europeo, infatti, ogni riforma che apre inevitabilmente voragini nei conti pubblici (vedi fisco e pensioni) dovrà essere finanziata con nuove entrate a copertura, in altre parole con nuove tasse. E la parola nuove tasse, come sappiamo, è una sorta di “eresia” per la dottrina del governo Meloni. E questa è solo una sintesi: la lista delle questioni spinose per il governo nella partita del patto di stabilità spazia dai vincoli sull’uso delle risorse del Pnrr, alla mancata esclusione degli investimenti su grandi progetti infrastrutturali straordinari (leggi il Ponte sullo Stretto di Messina) dal calcolo della spesa pubblica ai fini del deficit. Ma più in generale, l’Italia sembra ritenere che l’intera proposta di riforma del Patto di stabilità – dall’obbligo di correggere dello 0,5% l’anno ogni deviazione del rapporto Deficit/Pil dal tetto del 3%, alla riduzione annua del rapporto tra debito e Pil) abbia complicato ulteriormente i margini di manovra del governo sul rilancio dell’economia e la modernizzazione del Paese.
Insomma, secondo i nuovi meccanismi di vigilanza europea sui conti pubblici, l’era delle promesse roboanti e delle illusioni populistiche nella spesa pubblica sembrerebbe davvero (e finalmente) al capolinea. Non solo per l’attuale governo, ma per chiunque governerà l’Italia nelle prossime legislature: la nuova parola d’ordine dell’Europa è “accountability”, cioè responsabilità assoluta e diretta dei governi sugli impegni di risanamento dei conti pubblici con le istituzioni europee. Pena, l’avvio automatico di una procedura d’infrazione, con le sanzioni che comporta. Che fare? Certamente non litigare: né con l’Europa, né con i mercati finanziari, che davanti agli scenari incerti che ha davanti il Paese hanno già cominciato a mettersi ai ripari dal rischio-Italia. Tassi di interesse sui Btp in forte rialzo e Borsa in caduta sono un segnale chiarissimo del sentiero strettissimo in cui si muove il governo. E le incertezze del centro destra sull’uso di fondi del Pnrr non aiutano certamente l’immagine del Paese.
Non solo. Se da un lato l’Italia ha promesso battaglia a Bruxelles per ottenere modifiche della bozza di riforma del Patto più favorevoli al Paese, dall’altro lato anche la Germania sembra pronta a combattere per rendere persino più stringente la cintura di sicurezza intorno ai Paesi più indebitati come l’Italia. Già ieri, il ministro delle finanze tedesco Christian Lindner ha definito come “insoddisfacente” la proposta di riduzione obbligatoria del deficit dello 0,5% annuo (quando supera il 3% del Pil), lasciando capire che per la Germania il taglio minimo deve essere dell’1%, un livello chiaramente punitivo non solo per l’Italia, ma anche per la Romania, l’Ungheria, la Spagna, Malta e persino la Francia. “Le proposte della Commissione europea – ha detto il ministro tedesco – non soddisfano ancora i requisiti della Germania? Lavoriamo in modo costruttivo, ma nessuno dovrebbe credere erroneamente che la Germania acconsentirà automaticamente alle proposte. Accetteremo solo regole che consentano un percorso affidabile verso la riduzione del debito e la stabilità delle finanze pubbliche”.
Un portavoce del governo olandese ha emesso una reazione più moderata e ha sottolineato che le regole riviste dovrebbero portare a “un’ambiziosa riduzione del debito” nonché a “una migliore conformità e applicazione”, ma in realtà anche Amsterdam non si sente abbastanza tutelata dalla bozza di riforma del patto. In conclusione, la sfida per l’Italia non è quella di spuntare un miglioramento del patto finale rispetto alla bozza della Commissione, ma semmai di evitare che peggiori nella sua stesura finale.
