Pd a un bivio, altro che alleanze: innovare per uscire dal limbo

Il dibattito che si è aperto sui giornali circa il futuro del Pd ci spinge a qualche considerazione da osservatori esterni alla vita del partito, ma attenti al ruolo dell’opposizione. La presidente Meloni, in occasione del voto di fiducia al precedente governo Draghi nel suo discorso alla Camera, aveva allora sottolineato a ragione la necessità che in un regime democratico, in cui la maggioranza di governo è indicata dai cittadini, vi fosse almeno una forza politica che occupasse il ruolo dell’opposizione, scelta che fece il suo partito in quella occasione. Si tratta di una considerazione ovviamente valida tuttora, ed è dunque anche per questa ragione che il travaglio del Pd deve attirare l’attenzione di tutti i cittadini democratici.

A noi sembra, contrariamente a quanto sostenuto da diversi commentatori, che il problema più importante del Pd non sia oggi principalmente quello della scelta degli alleati, anche se di questi ultimi esso avrà naturalmente bisogno per sfidare la destra. Se si pensa a uno dei possibili alleati, il partito di Conte, nulla esclude in prospettiva e anche a livello nazionale un accordo con chi è stato all’inizio con Di Maio (che lo ha inventato come primo ministro) poi con Salvini e poi anche con Draghi. Perché Conte non potrebbe allearsi con Bonaccini? Meglio dopo le elezioni invece che prima – se per ipotesi, come vorrebbe lui, verosimilmente invano, ci fosse una legge elettorale proporzionale. La difficoltà è che Conte e il Pd oggi non avrebbero le forze da soli per battere la destra e non hanno per ora un programma comune. Ma sul piano delle alleanze e dei rapporti di forza speculazioni su questo tema sono premature e in larga misura inutili. Ragionamento che vale anche per i potenziali alleati sul fronte moderato, i dioscuri di Azione e Italia viva.

Il problema a nostro avviso più rilevante, oggi e forse domani, è che la sinistra in Italia – salvo che in alcune regioni, che però sono una realtà diversa dal governo dell’Italia e dell’Italia in Europa – ha, con qualche eccezione e soprattutto nella sua retorica, una mera cultura di opposizione, anche perché le esperienze dei governi nazionali di centro-sinistra sono state fragili e di breve durata, condizionate e poi interrotte da alleati troppo disomogenei gli uni con gli altri. Il tema vero per il Pd, dunque, al di là (e prima) delle scelte sulle alleanze, è la costruzione di una effettiva cultura di governo, attraverso la quale superare la situazione attuale. A questo riguardo, bisogna ricordare che uno dei temi propositivi centrali del centrosinistra è sempre stato quello della ridistribuzione della ricchezza.

Questa però implica crescita della produttività e riduzione del debito pubblico. I “trenta gloriosi” sono lontani nel tempo e l’Italia, come molti altri paesi occidentali, si trova dinanzi a scelte difficili e certo non popolari, le quali sono oggi a carico del governo Meloni. Il Pd e la sinistra devono trovare al riguardo una voce che in questo momento appare piuttosto fioca e non si tratta certo di un compito facile. Non solo perché, come si è detto, il partito deve comunque scegliere un segretario – se possibile un leader da difendere invece che da abbattere – e immaginare una politica di alleanze (che non è però il tema all’ordine del giorno), ma specialmente perché esso manca di una strategia (o come si dice oggi di una identità) per il XXI secolo. Nell’ultimo secolo e mezzo la sinistra socialdemocratica in Europa ha vinto due essenziali battaglie: quella del suffragio universale, a partire dall’integrazione della classe operaia, attraverso i suoi rappresentanti, dentro il governo rappresentativo, e poi quella del welfare.

Oggi deve affrontare sfide inedite e più difficili: tra le altre, quelle che dipendono dal riscaldamento globale del pianeta e quella dei movimenti migratori, che richiederanno un grande sforzo di integrazione selettiva di forza lavoro, di cui l’Italia ha bisogno, che viene dai paesi più poveri e che è mal vista in molti casi dalle stesse forze sociali che sono state la base elettorale della sinistra storica, in molti casi gli operai. Più in generale è il mutamento sociale degli ultimi decenni che andrebbe analizzato e la diminuzione netta degli stessi operai a fronte della crescita di altri ceti, che è uno dei problemi più importanti per la sinistra. Le difficoltà che incontra il Pd hanno dunque a che vedere non solo, come si ripete spesso, con le correnti del partito e l’assenza di un leader (o peggio con l’ostilità nei confronti di una necessaria figura di questo tipo), ma, specialmente, con le sfide che oggi si profilano dinanzi ai governi democratici.

Sempre più costretti dentro lo sguardo corto della breve durata e della subordinazione pedissequa ad una pubblica opinione, che rischia di chiedere non solo integrità e competenza da parte dei governanti, ma anche soddisfazione di bisogni che più di una volta – per ragioni oggettive di risorse scarse – non può ottenere. Nei prossimi anni si vedrà che cosa il governo in carica può fare per l’Italia e per gli elettori che lo hanno scelto. Il Pd deve prepararsi al difficile compito dell’alternanza, se non vuole condannarsi ad un ruolo di pura e semplice opposizione, come è stato durante la cosiddetta Prima repubblica.

Ma non può più affidarsi alle ideologie del secolo scorso che in parte hanno cambiato la società, in parte sono state sconfitte nelle loro versioni radicali. Deve rivedere le basi sociali del suo elettorato potenziale e le sue parole d’ordine. E, intanto, capire le ragioni del possibile successo o della sconfitta del nuovo governo della destra in Italia.