Enza Bruno Bossio, già parlamentare Dem, in prima linea nella battaglia parlamentare per una giustizia giusta e contro il giustizialismo, (come nel caso della sua quasi solitaria opposizione all’ergastolo ostativo), affronta con Il Riformista tutti i temi caldi legati al Pd e al suo tormentato percorso congressuale.

Identità: una parola di moda nel dibattito a sinistra e nel percorso congressuale del Partito democratico. Prova lei a declinarla?
Spesso si confonde il percorso costituente con la ricerca di un’identità perduta. Ma c’è da chiedersi, ritrovare un’identità rispetto a cosa? Si dimentica che il Partito democratico ha solo quindici anni, e in molti, quando immaginano un’identità, vanno a cercarla nei loro Lari. Io credo che il Pd debba, invece, ripensare se stesso, il proprio modello organizzativo, facendo i conti con le contraddizioni del tempo in cui viviamo e non rimanere ancorato ad una idea novecentesca di un patto tra produttori o come dice Tronti, a svolgere quella “funzione di supplenza nella gestione degli affari correnti della formazione economico-sociale così com’è”. Un partito capace di interpretare la propria funzione in un mondo che da dopo la caduta del Muro di Berlino è ben lontano dal tempo dei blocchi militari contrapposti e che si presenta attraverso uno schema sempre più multipolare. Questa è anche la via per stare dalla parte dell’Ucraina e costruire un percorso di pace e di fine della guerra.

Qual è la sua idea del progetto politico del nuovo Pd?
Avere una idea dello sviluppo che parta dal superamento dei divari e delle diseguaglianze ma nello stesso tempo investa nella formazione di ragazze e ragazzi, sulle nuove competenze, sul digitale e sull’innovazione; un nuovo statuto dei lavoratori che comprenda i diritti per tutte le nuove forme di lavoro, senza rimpiangere né l’art.18, né il jobs Act, partendo dall’istituzione legislativa di un salario minimo per tutti; una riforma del welfare che separi previdenza da assistenza e superi il corporativismo dell’attuale modello, riconoscendo in maniera universale agli individui che non sono in grado di lavorare, il diritto al reddito; una proposta sulla giustizia che valorizzi il riconoscimento dello stato diritto e ripristini la corretta divisione dei poteri; il diritto delle nuove generazioni di avere nuovi diritti, il diritto di essere se stessi, il diritto alla protezione e valorizzazione del proprio corpo, dei propri sentimenti, della propria diversità.

Quella del 25 settembre più che una sconfitta elettorale per il centrosinistra è stata una sconfitta politica. È imputabile soltanto e soprattutto al fallimento del “campo largo” su cui aveva puntato Enrico Letta?
La sconfitta del 25 settembre nasce da lontano. Non sono mai stati affrontati i temi che erano presenti nel Manifesto dei Valori del Pd del 2007 che indicava un partito “impegnato a promuovere l’evoluzione e la riforma del sistema politico istituzionale verso una democrazia competitiva, imperniata sulla sovranità del cittadino elettore.” In particolare, non è stato mai affrontato dal gruppo dirigente nazionale del Partito democratico (da quindici anni più o meno lo stesso nelle segreterie e nelle rappresentanze parlamentari) il tema del rapporto tra cittadino e politica, oggi sempre più deteriorato dall’impossibilità per l’elettore di scegliere il proprio rappresentante. Tutti i partiti, anche il Pd, hanno voluto mantenere leggi elettorali incostituzionali quali il Porcellum, l’Italicum e il Rosatellum per non togliere alle segreterie di partito il privilegio di scegliere come eletti i propri sodali. Il 25 settembre, nonostante l’impegno di Letta a non ripetere l’errore di Renzi, è stato fatto molto peggio di quello che è accaduto nella composizione delle liste del 2018.

Vale a dire?
A causa del taglio dei parlamentari i posti erano molti meno. Pertanto, la scelta è stata quella di occupare le postazioni elettorali, prevedibilmente eleggibili, come i capilista, con i rappresentanti delle correnti. Poi certo, c’entrano anche le alleanze. Se scegli di tenerti Di Maio (ormai creatura di Draghi), non è poi facile riuscire ad allearsi con i 5 Stelle. Ancora peggio aver fatto, di contro, alleanza con Sinistra Italiana, collocata alla opposizione del governo Draghi. Dopodiché qualcuno ci deve ancora spiegare perché abbiamo dovuto dare un significativo spazio nelle liste ad Art.1 e ora riconoscere, insieme a Letta, il ruolo di garante del percorso congressuale al segretario di questo partito, a fronte di una fase costituente che dovrebbe avere un carattere molto più ampio e plurale.

“Il PD rappresenta la parte progressista della mentalità borghese, il suo consenso è quello dei ceti medi riflessivi: consenso da conservare, ma alla sua sinistra va organizzata una grande e credibile forza popolare. Sia chiaro però: non è roba da grillismo»”. Così Mario Tronti in una intervista a questo giornale.
Condivido l’analisi di Mario Tronti su i limiti del pensiero e dell’azione della sinistra ferma agli anni 90, ma non ne condivido le conclusioni e ancor meno l’idea di ridurre il Pd al partito del ceto medio (ma esiste ancora?) borghese, trasformando la tensione riformista del Pd in una brutta copia delle socialdemocrazie europee del novecento. Noi dobbiamo essere una forza politica che vive nel suo secolo. E lo ama. Lo ama perché lo conosce. Ne conosce i limiti (crisi climatica, distruzione delle risorse) ma anche le potenzialità (economia della conoscenza, dati, reti e connettività). Mentre l’attuale gruppo dirigente nazionale del Pd, troppo preso a spartirsi le spoglie, sembra quasi non conosca questo secolo. Continua a sopravvivere invece di mettersi in discussione.

A proposito di esercizi retorici. Non ritiene tale ripetere che il “PD deve tornare nelle periferie”?
L’ idea semplicistica di un partito delle ZTL rispetto a quello delle periferie è da rifiutare culturalmente e socialmente. La sfida che il Pd deve poter vincere è quella di saper coniugare le domande e i bisogni indotti da una società che diviene sempre più complessa a fronte di una più netta demarcazione tra ricchezza e povertà, tra aree forti e marginali. Il Pd deve essere riconosciuto dalle persone per le sue idee, la sua proposta politica e soprattutto per la sua credibilità. Un partito che pensa quello che dice e fa quello che dichiara. Insomma, una nettezza di linea politica che sappia essere espressione di identificabili interessi sociali. Il tema non è più quello di una visione duale Nord-Sud, ma quella di un’Italia ad un’unica velocità che affronti e superi i divari territoriali, di genere e generazionali.

Si dice: un partito nuovo è tale se assume con forza e coerenza il punto di vista delle donne. Ma le donne del PD hanno saputo fare un gioco di squadra?
Perché non si chiede mai agli uomini se hanno saputo fare il gioco di squadra? Noi donne siamo la maggioranza del Paese, non dobbiamo mendicare niente. Dobbiamo scardinare il potere maschile dei partiti che usano le donne come foglie di fico e le trattano da minoranza da contrapporre una all’altra. Questo è accaduto nell’ultima campagna elettorale e questo non dovrà mai più accadere nel Pd. Per questo abbiamo sentito l’esigenza di far nascere un collettivo, un gruppo di donne, un PD X.0, che non pensa che tale rigenerazione possa essere esaurita dal passaggio congressuale, che pure abbiamo sollecitato con una petizione che in pochi giorni ha raccolto più di mille firme. Infatti, scriviamo nel nostro documento: “Pensiamo sia necessario agire in due fasi: quella del tempo immediato, per ridare slancio ed entusiasmo anche attraverso l’individuazione di una nuova leadership, e quella del tempo lento che serve per guarire la ferita, rigenerare i tessuti del corpo e fare della cicatrice il ricamo più bello della nostra storia”. L’empowerment femminile deve essere declinato nella volontà di creare condizioni affinché le donne siano libere di autodeterminarsi, di avanzare senza dover fare passi indietro causati da ostacoli normativi o culturali. Ma soprattutto crediamo nel valore della sorellanza e per questo vogliamo un Pd capace di difendere i diritti e le libertà di quelle donne che nel mondo non hanno voce, né volto: pensiamo alle donne afghane, alle donne dell’Arabia Saudita ed infine alle donne straordinarie dell’Iran che sono disposte a sacrificare la loro vita contro le diseguaglianze che tutte le dittature alimentano.

Non vede il rischio che il confronto congressuale finisca per ridursi al riposizionamento personale o di “componente” su questo o quel candidato/a?
Il rischio è molto alto e i capi corrente sono all’opera per riproporre lo schema di sempre. Tutto cambi perché niente cambi. La scelta che ci attende dovrà essere di netta discontinuità con un Pd che in questi anni ha riconosciuto solo la sovranità delle correnti, ma ancor più verso un Pd che vuole affidarsi a nuove figure “simboliche” fuori da se stesso. Occorre invece puntare con forza su un candidato/a che scommetta sulla rappresentanza delle idee e dei territori, ridando fiducia ed entusiasmo a chi oggi pensa che non ci sia più futuro per il Pd.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.