Dal campo largo a Campogalliano. È nel piccolo borgo del modenese, in una vecchia sezione con il simbolo della falce e martello ancora appeso alle pareti, che Stefano Bonaccini annuncia la candidatura alla segreteria del Pd. La sua è una ricerca di investitura che punta sul residuo senso di autonomia di un partito molto intristito che è colpito da un angoscioso male di vivere. Per certi versi, egli propone al Nazareno di compiere la stessa operazione che progettò Craxi dopo il crollo socialista del ’76. Al voto di giugno, che lo gettò al di sotto della soglia minima del 10%, il leader autonomista rispose con la combattiva ricerca di una “moderna” progettualità socialista competitiva sia con il Pci sia con lo scudo crociato.

La minaccia di un completo esaurimento funzionale sollecita, anche per il Pd, un’operazione tempestiva nel segno del presidio di un territorio fortemente minacciato da appetiti famelici. E Bonaccini, nella sua ascesa, confida in un primordiale bisogno di sopravvivenza che di norma si insinua in ogni organizzazione. La figura di una leadership che garantisce la continuità ad un organismo smarrito dovrebbe convincere gli iscritti ad investire della segreteria chi formula con maggiore credibilità l’offerta dell’autonomia politica. Questo è il maggiore punto di forza che contiene la sfida del presidente dell’Emilia-Romagna. Confida nell’effetto persuasivo sprigionato da un certo piglio decisionista che, in tempi di smarrimento e declino, rassicura i resti di un partito incompiuto.

Anche nella deroga allo statuto votata dall’assemblea per consentire a Elly Schlein di contendere la segreteria, il Pd conferma tutta la sua estrema provvisorietà. Il codicillo, che ora apre ad una non iscritta la corsa per la leadership, è un potente argomento a favore della sfida di Bonaccini. Con la sua promessa di un’autonomia riconquistata, egli può presentarsi come la sola ancora di salvezza rimasta agli iscritti sbigottiti dinanzi alle trovate di un caminetto di bizzarri capicorrente disposti a tutto, anche a consegnare i comandi di una forza politica a chi formalmente non ne fa (fino ad un secondo prima) parte. Dietro l’ultima scelta di Letta, che contempla la surreale possibilità dell’iscrizione diretta alla segreteria, cova un’idea profondamente antipolitica che contrasta con ogni minima consapevolezza delle compatibilità di un’organizzazione complessa.

La leadership non è, per Letta, il risultato di un’impresa collettiva, che si prospetta come la conclusione di una lunga stagione di apprendimento dei riti di una comunità politica. È, piuttosto, una scalata solitaria che scommette in un soccorso mediatico e travolge ogni senso della trama relazionale e simbolica di un movimento. Dinanzi all’ennesimo graffio politico-culturale inferto ad un partito che lotta per la propria stessa sopravvivenza, dovrebbe dilagare tra gli iscritti la volontà di trovare un’immediata rassicurazione nella guida autorevole del presidente emiliano-romagnolo. Ma sbaglierebbe il candidato che gli osservatori danno per favorito ad interpretare il suo “momento Craxi” come una semplice esibizione della forza tranquilla di una leadership già annunciata. Proprio lo storico leader socialista lanciò la sua pretesa di autonomia unendo al provocatorio pungolo decisionista grandi innovazioni culturali, simboliche, organizzative.

Anche Bonaccini ha accennato nel suo discorso alla questione dell’identità, e quindi ha fatto riferimento alla famiglia “dei socialisti e dei democratici”. E però, una volta esperita la preliminare (e preminente) operazione di ancoraggio a idee e valori chiari, la soluzione del nodo identitario deve approdare anche ad una trasparente ratifica simbolica, ovvero all’adeguamento del nome del partito per rendere esplicita l’appartenenza al campo del socialismo europeo, che ora c’è ma ad un livello solo formale. Senza questa soluzione, che arresterebbe la lunga evanescenza identitaria, è ardua la rivoluzione copernicana che assegna una rilevanza primaria all’autonomia culturale e un posto solo secondario al tema delle alleanze. Un partito ha tre profili distinti. C’è il profilo programmatico, che, indicando una condivisione essenziale ma debole di singole misure legislative, rinvia ad un minimale sostegno ad obiettivi congiunturali perseguibili qui ed ora; poi, ad un piano intermedio, si colloca il profilo della cultura politica, che rimanda alla stessa interpretazione del quadro istituzionale, al ruolo delle alleanze, alla condivisione di una funzione storica; infine, ad un livello superiore, si presenta il profilo nobile dell’identità, che contiene un deposito di ideologia e di memoria politica o, almeno, un catalogo di idee-valori che, sulla base di un preciso modello di società, resiste agli accidenti mutevoli della contingenza.

Districati questi nodi, si possono affrontare con destrezza anche i negoziati per le intese elettorali, che neppure Bonaccini esclude. Anzi, nelle sue parole emerge l’esigenza di costruire convergenze larghe. Esiste un modo subalterno di declinare la politica delle alleanze, designando un leader di un altro partito quale “punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste” oppure predicando che solo con i gemelli diversi del terzo polo liberaldemocratico è possibile sottoscrivere un’agenda di governo; e poi c’è un modo politico costruttivo di disegnare dall’opposizione una solida ricomposizione di un quadro unitario per l’alternativa alla destra radicale. L’accenno di Bonaccini alla necessità di consolidare un “grande partito popolare”, radicato nei territori, presente nelle piazze, frequentatore dei luoghi di lavoro, stanziato nelle periferie del disagio, per non rivelarsi una semplice esortazione retorica deve riaprire la questione cruciale del rapporto irresponsabilmente incrinato con il sindacato. Un partito rigenerato dovrà inoltre saper dialogare con i movimenti dell’ecologismo, della pace, con un linguaggio ben diverso da quello adoperato da Letta nel segno di un atlantismo troppo statico.

Va dato atto al presidente dell’Emilia-Romagna di aver mostrato, a chi dava il Pd per definitivamente spacciato, che energie positive possono riattivarsi anche nei momenti inaspettati. Il rischio paventato dalla stampa, che evoca una sicura scissione dopo un suo eventuale successo, pare del tutto campato in aria. È peraltro impolitica l’accusa rivolta a Bonaccini di essere il cavallo di Troia di un Renzi pronto a eterodirigere il nuovo inquilino del Nazareno. L’aspirante segretario è troppo sicuro di sé per accettare di fare il ventriloquo del senatore di Rignano. È una sfida non banale quella che Bonaccini ha lanciato a “Campgajàn”. Essa impone anche alle altre componenti del Pd, in particolare all’ala sinistra, di calibrare un’alternativa politico-culturale altrettanto solida. La credibilità e la coerenza della proposta impongono ad Orlando di scongiurare cedimenti a suggestioni effimere. Tale sembra l’opzione a favore di un partito-taxi, che anche un non iscritto può prendere per conquistare la leadership senza aver prima condotto una battaglia riconoscibile entro le strutture e i tempi dell’organizzazione.