Osservazioni giuste ma manca una parola: socialismo
De Benedetti e l’intervista al Corriere: non serve un programma a salvare il Pd, ci vuole una ideologia
Rimane una parola che Carlo De Benedetti continua ad espellere dal suo vocabolario politico, ed è il termine “socialista”. Come l’avvocato del popolo Conte, che pure egli disprezza enormemente, anche l’ingegnere preferisce adoperare una locuzione meno impegnativa, quella di “progressista”. Proprio in questa dimenticanza della parola maledetta “socialismo”, però, risiede la genesi della malattia mortale del Pd. Il rifiuto di allineare il sistema politico italiano alle grandi tradizioni ideologiche europee è la radice del fallimento del progetto politico del Nazareno.
Le cose pur giustissime che (nell’intervista rilasciata ieri ad Aldo Cazzullo sul Corriere) ha dichiarato la tessera numero uno su Letta, sui limiti dilettantistici della sua gestione, restano così alla superficie del grave fenomeno degenerativo che ha portato la destra al potere. Se non si scava più in profondità, fino a rintracciare nelle utopie americaneggianti del Lingotto lo sviamento assurdo che ha distrutto ogni cultura di politica organizzata, le ragioni della trionfante stagione post-fascista restano del tutto inesplorate. A settembre non c’è stata una semplice sconfitta di un’offerta elettorale flaccida rispetto alla quale il voto ha preferito premiare una normale alternativa di governo. Una consegna del potere alla destra radicale rappresenta non un banale cambio della guardia, ma un cedimento strutturale che ratifica il collasso delle idee che accompagnavano l’azzardo del 2007.
La drammaticità della batosta non viene neppure problematizzata dal Nazareno. Gestiscono con una calma inspiegabile una frana epocale che richiederebbe ben altra energia e capacità di interpretazione. De Benedetti fa bene ad essere impietoso nella denuncia. Quando registra che il Pd è diventato un “partito di baroni”, che ha il sostegno della borghesia ma ha divorziato dal popolo, trascura che questa metamorfosi è nient’altro che la prevedibile conseguenza della dannazione dell’idealità socialista e della forma del partito di massa che ne è la traduzione organizzativa. Il populismo che contrappone élite e popolo, centro e periferia, occupa lo spazio immenso lasciato incustodito dalla fuga dall’ideologia socialista come simbolo e pratica della mobilitazione delle classi lavoratrici. Neanche adesso che ha accumulato ferite che non possono essere cicatrizzate senza operazioni radicali di reinvenzione culturale e organizzativa, il Pd sembra avere la percezione che non si può allontanare dal capolinea senza una tardiva operazione di recupero di identità. Il problema non è lo “scioglimento” in quanto tale (la smobilitazione produrrebbe effetti distorsivi maggiori rispetto ai benefici simbolici di una ripartenza). Servirebbe, piuttosto, un processo reale di ricostruzione di un vero partito che eviti come la peste la sceneggiata delle primarie.
È enorme lo scetticismo di De Benedetti sull’adeguatezza delle personalità che si prenotano per la segreteria. Il nodo, però, non è l’inadeguatezza antropologica dell’amministratore in quanto tale a ricoprire funzioni di leadership. La questione è il partito. Il semplice programma non fa un partito, occorre una identità la quale fornisca una capacità di resistenza anche nelle fasi di ritirata. Tuttavia, di questo nodo identitario nessuno nel Pd parla, e quindi il congresso si incaglierà in sentieri già percorsi, nelle solite dinamiche. L’invenzione di candidature della società civile e il ricorso a modifiche statutarie ad hoc per consentire di competere per la segreteria svelano quanto fragile sia la forma partito nell’architettura del Nazareno. Il Pd si conferma una forza politica fragile che si riproduce come un puro cartello elettorale anche in tempi di crisi della democrazia. La destra, per la sua inadeguatezza, sta preparando le condizioni per uno choc esterno distruttivo.
La sua gestione del potere ai limiti della provocazione richiederebbe un’opposizione con l’attitudine alla costruzione di una politica di massa. Per recuperare la fiducia dei ceti popolari fuggiti, non certo per rimuovere le polveri che hanno sommerso i gazebo. Privo di identità e di ogni radicamento nel conflitto sociale, il Pd è un soggetto smarrito che – su questo De Benedetti ha ragione- non riesce neanche a rendere produttive le contraddizioni che si aprono a destra con la clamorosa rottura operata dalla Moratti. Espugnare una regione cruciale come la Lombardia sarebbe l’inizio di uno sgretolamento della temibile e distruttiva destra di governo. Senza recuperare quell’idea blasfema che va sotto il nome di socialismo, e che anche l’ingegnere teme, la crisi della democrazia in Italia sarà senza rimedio. Una polarizzazione tra una destra radicale e un populismo “progressista” avrebbe ricadute catastrofiche.
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