Il futuro della sinistra
Intervista a Susanna Camusso: “La sinistra non sa fare squadra tra maschilismo e leaderismo”
È stata Segretaria generale della Cgil dal 2010 al 2019. Oggi è senatrice, eletta nella lista Partito Democratico- Italia Democratica e Progressista . È stata chiamata a far parte del Comitato costituente per il “nuovo PD”. La parola a Susanna Camusso.
Una sinistra alla ricerca d’identità. Una parola vuota se non viene sostanziata. Ci provi lei.
Contrastare le diseguaglianze, progettare ed attuare giustizia sociale, stare con i lavoratori e con gli oppressi, riconoscere e dare valore alle diversità può essere in estrema sintesi una descrizione dell’identità di sinistra. Se la si deve cercare è perché la si è smarrita: la si è persa inseguendo l’idea, tanto cara al liberismo, che “siamo tutti sulla stessa barca”, molto sbandierata nelle crisi che si sono susseguite dagli anni ’90. Un’idea che parte dal presupposto che, in nome dell’emergenza del momento, siano magicamente cancellate le diseguaglianze. Vedere come queste scelte hanno ampliato le diseguaglianze e scegliere invece di contrastarle sarebbe di per sé un’agenda politica che ridia identità e rappresentanza.
Altra parola abusata è quella di “costituente”. Ma costituire cosa? Una nuova casa per una sinistra plurale o riammodernare quello che già c’è, il Pd?
Parola troppo utilizzata per descrivere processi di scissione, invece che di pluralità. Per me l’obiettivo è una sinistra unita e plurale, con l’ambizione di governare su un proprio programma, ma per attuare questo obiettivo è necessario un processo largo e profondo. Credo che questo processo non sia possibile senza fare i conti con il Pd, con i suoi generosi militanti ed attivisti, i suoi elettori, ma soprattutto con tutti coloro che, il Pd e altri soggetti di sinistra, hanno smesso di votarli. Ritorno con la memoria alle elezioni regionali dell’Emilia Romagna, quando i votanti furono il 37,7% degli elettori. Era il 2014 e in quelle astensioni, c’era un messaggio esplicito sul lavoro e le sue condizioni, rivolto innanzitutto alla sinistra. Credo che il tema non sia costruire una nuova casa o riammodernarla, ma decidere se si vuole immaginare un soggetto unito e plurale che superi le attuali frammentazioni. Non si fa per decreto, bisogna avere l’umiltà di aprire il confronto e di rendersi disponibili alla trasformazione; e mettere al centro l’obiettivo di un nuovo soggetto, o almeno una nuova definizione di sé. Questa la scelta che il congresso dovrebbe affrontare, più rilevante che discettare di alleanze.
In Italia è aperta da tempo una enorme “questione sociale”. In tanti ne parlano, ma poi a intercettare il malessere sociale, traducendolo in consensi elettorali, è la destra.
Non c’è dubbio che la destra abbia intercettato e parlato del disagio sociale e per questo sia stata premiata nel voto, ma altrettanto vero è che poi abbandona quegli stessi soggetti; la legge di bilancio è lì a dimostrarlo. Sia chiaro questo non giustifica la sinistra, anzi. Proprio perché sappiamo come si comporta la destra, non solo italiana, è una aggravante per la sinistra. Tanti, troppi nel “mondo progressista” non vedono la questione sociale, fermano la loro attenzione al ceto medio, anche non accorgendosi di come lo stesso ceto medio si stia progressivamente impoverendo. Altri vedono la povertà, ma non ne vedono le caratteristiche, ignorano le politiche sulla povertà non monetarie, come la povertà abitativa. Per affrontare la questione sociale bisogna smettere di inseguire due luoghi comuni che sembrano un mantra anche a sinistra: abbassare le tasse e ridurre la spesa sociale, vista come spesa e non investimento. Se si è perso il contatto con quel mondo che si vorrebbe e dovrebbe rappresentare, bisogna tornare sui propri passi, esserci sempre e in tutte le periferie, che non sono solo quelle delle città, perché sono tante le periferie della nostra società. Ricominciare a radicare la propria rappresentanza attraverso la presenza nei luoghi che si intende rappresentare, ed elaborare e proporre la pratica di politiche sociali e sul lavoro che vadano contro le diseguaglianze. Così si dovrebbe metterla.
Le elezioni del 25 settembre hanno segnato il record di astensioni nella storia dell’Italia repubblicana. Un dato politico, non “fisiologico”. Che evidenzia una crisi della rappresentanza che non investe solo i partiti ma anche i cosiddetti corpi intermedi, tra i quali uno che lei conosce molto bene: il sindacato.
L’astensione del 25 settembre, conferma e accresce una storia nota: coloro che non si sentono rappresentati non votano. Vale per il mondo del lavoro, come per i sempre più diseguali. Pesa sicuramente la crescita dell’individualismo e quella barriera che troppo spesso impedisce di vedere la comune condizione, inducendo invece a vedere il nemico in chi è più simile a te. Quante volte è diventato normale indicare la globalizzazione, l’interdipendenza, la comunità europea come entità immodificabili e condizionanti, che “liberavano” dal cercare politiche alternative, innanzitutto ricostruendo la dimensione collettiva? Tutto questo parla della crisi politica, ma anche della debolezza di progettualità del sindacato confederale. L’individualizzazione e l’elezione dei consumatori a soggetto politico di riferimento si sono accompagnati ad un processo di frantumazione del sistema produttivo. Per tradurla in una immagine, alle fiumane di tute blu negli aggregati industriali, si sono sostituite le unità di lavoratori e lavoratrici privi di forza collettiva. Ognuno di questi elementi non fa tabula rasa dei precedenti, convivono tuttora condizioni diverse, e diventa facile rinchiudersi nel noto e già organizzato. Fino a non vedere che concentrare attenzione solo su una parte del mondo diventa a sua volta motore di disuguaglianze: decontribuire o defiscalizzare gli accordi aziendali (che coinvolgono il 12, 15% dei lavoratori), e non i contratti nazionali è un fattore di diseguaglianza, lo stesso vale nello spostare risorse pubbliche sul welfare aziendale sottraendolo alle reti pubbliche a partire dalla sanità. Forme di corporativismo che nel breve difendono la tua forza, ma nello stesso tempo preparano le difficoltà successive. Il sindacato non ha attraversato una crisi come i partiti, perché ha avuto la capacità di mantenere il suo radicamento nei luoghi di lavoro, attraverso decine di migliaia di delegati eletti dai lavoratori e dalle lavoratrici. Ma indubbiamente fa fatica ad essere presente e ad organizzare il nuovo lavoro, quello disperso, quello precario, anche perché ogni volta che si raggiunge un obiettivo c’è chi inventa nuove o vecchie forme di precarizzazione, pensiamo alla straordinaria mobilitazione sui voucher che oggi vengono riproposti nella legge di bilancio. Eppure, penso che non basti invocare la centralità del lavoro, se non si agisce coerentemente per una nuova sindacalizzazione. Credo sia giusto vedere le ragioni oggettive, ma sia autoconsolatorio e dannoso non vedere come il sindacato – ed anche altre organizzazioni di massa – nel rinchiudersi assumano comportamenti difensivi, non includano i giovani, riducano la rappresentanza di genere, abbiano minor interlocuzione con altri soggetti sociali, tutti elementi di impoverimento e di crisi.
Perché a sinistra è così difficile fare squadra?
Troppi uomini. Il deficit di rappresentanza della pluralità della società induce a comportamenti autoassertivi, alla convinzione che il punto di vista maschile sia di per sé universale, respinge la politica femminista quando rifiuta l’omologazione e l’unicità del modello di potere. Non credo sia l’unica causa. A sinistra (almeno in parte), si rifiuta l’idea del partito personale, l’unificazione del simbolo di partito con il nome del “capo”, anche se poi spesso si fa la stessa scelta attraverso le immagini e l’idea che l’unico volto noto dev’essere del leader, del partito, della corrente, dell’organizzazione. Questa univoca rappresentazione corrisponde poi alla sostituzione dell’elaborazione collettiva con i modelli plebiscitari di elezione, che determinano non la funzione collettiva, plurale, ma l’unico investito della funzione. Più si forzano elezioni dirette, più si determina l’identificazione nel singolo e non nelle amministrazioni collettive. L’assenza di luoghi di partecipazione e di percorsi certi di elaborazione collettiva toglie una palestra fondamentale di crescita politica e di selezione di nuovi quadri. Grazie a questo, il meccanismo di cooptazione diventa fondamentale, e la cooptazione presuppone fedeltà al capo, non crescita di nuovi dirigenti. È questa la differenza tra congresso come luogo di elaborazione, e primarie che si riducono all’elezione del leader. Per questo le primarie come definizione del gruppo dirigente, la legge elettorale che permette la predeterminazione di chi verrà eletto, l’elezione diretta, sono modalità che privilegiano “io” e gerarchia, e limitano invece il “noi” e il fare squadra.
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