"Lo spirito di servizio uno dei problemi della sconfitta"
“Congresso Pd non diventi talent show con tifoserie, identità è problema di tutti i partiti”, parla Anna Ascani
Il Pd a congresso tra spinte al rinnovamento e il rischio di ridurre il tutto alla ricerca di un nuovo leader. Il Riformista ne discute con Anna Ascani, parlamentare Dem e Vice presidente della Camera dei Deputati.
Nel dibattito sul voto nella Direzione Dem, la parola “identità” è riechieggiata in quasi tutti gli interventi. Ma se non viene declinata, “identità” resta una parola vuota, neutra. Provi lei a declinarla.
Anzitutto trovo che porre solo a noi – come accade in queste settimane – la questione dell’identità sia un modo per non guardare alla realtà del panorama politico italiano. Pensiamo ad esempio alla crisi di identità della Lega, oggi alle prese con il ritorno del federalismo di Calderoli dopo quasi dieci anni di visione sovranista. O alla parabola dei Cinque Stelle che hanno negli stessi dieci anni coperto ogni spazio politico possibile – dalla destra estrema dei “taxi del mare” al populismo sedicente di sinistra. O a chi definendosi “centro” pensa di aver risolto il problema dell’identità, dimostrando di confondere invece il politicismo e la politica. Non mi sfugge tuttavia che la questione dell’identità oggi riguarda anche il Pd, che pure resta il primo partito di opposizione. Il Partito Democratico è nato, infatti, con la volontà di unire visioni e valori fondamentali: quelli del cattolicesimo democratico, della socialdemocrazia, dell’ambientalismo. La sfida fu, nel 2007, riuscire a far convergere le ambizioni di progressisti e riformisti in una casa politica più larga, che si aprisse alle esigenze del XXI secolo, senza rinunciare allo straordinario portato positivo della storia del secolo precedente e, anzi, attualizzandolo. Quelle culture erano, però, ciascuna il frutto di una continua elaborazione intellettuale, che oggi pare invece persa. Credo che questo sia il peccato originale dal quale deriva la crisi del nostro partito – una crisi di identità, appunto – iniziata molto prima delle ultime elezioni politiche e spesso mascherata dal carisma e dall’autorevolezza del leader di turno, puntualmente consumato proprio a causa di questa carenza fondamentale. Nessuna casa può reggersi senza fondamenta e le fondamenta di un partito politico possono essere solide solo se costruite attraverso una profonda elaborazione intellettuale. Questo non significa che il Pd debba rinunciare al pragmatismo o a quella capacità di governare nelle emergenze che è stata il nostro prezioso servizio al Paese, ad esempio nel pieno dell’emergenza pandemica. Occorre però evitare di fare di questo pragmatismo un surrogato dell’identità. L’avere ceduto, in tutto o in parte, a questa tentazione è indubbiamente una delle ragioni della nostra sconfitta.
Altra parola pluri-utilizzata, e spesso abusata, è “costituente”. Un congresso “costituente”, una fase “costituente”. Ma “costruire” cosa? Una nuova “casa” per una sinistra plurale o per ammodernare gli arredi – leggi segretario – di ciò che già esiste?
Quando parliamo di fase costituente abbiamo ben presente la forza di questo termine e il fatto che evochi capacità di fare sintesi tra posizioni e visioni che non sempre collimano. Il pluralismo è, del resto, uno dei valori che il nostro Statuto riconosce come fondanti, ma senza uno sforzo di sintesi finisce per renderci poco comprensibili. Sappiamo che, affinché questo congresso sia davvero costituente dobbiamo avere il coraggio di metterci in discussione sul serio, senza esitazioni né tabù. A mio avviso, tuttavia, non si tratta di cambiare nome o simbolo, entrambi assolutamente moderni, ma di dare a una nuova classe dirigente una carta di valori che la rappresenti e la orienti. La fase più importante di questo congresso, quindi, non sarà quella che ci porterà, attraverso le primarie aperte, all’elezione di un nuovo segretario o di una nuova segretaria. È normale che l’attenzione dei commentatori, in un’epoca di personalizzazione assoluta, si concentri su questo. Ma il nostro sforzo deve essere un altro: mettere in condizione il futuro o la futura leader di guidare un partito che non consumi i suoi segretari utilizzando le loro biografie come sostitutive di un’identità collettiva. Per questo è così importante oggi parlare di fase costituente. Ed è importante che in questa fase ci si apra a tutti e tutte coloro che si riconoscono nel campo del centrosinistra e pensano di poter dare un contributo attivo alla definizione di un manifesto, di una strada, di un’identità.
Enrico Letta ha indetto per il 19 febbraio le primarie per la segreteria. Fioccano le candidature – Bonaccini, Schlein, De Micheli – ma non c’è il rischio che la personalizzazione del confronto sacrifichi una discussione libera da condizionamenti da schieramento?
Il rischio c’è. Ma è anche vero che la forza del nostro partito è sempre stata l’idea che la leadership fosse davvero contendibile, cosa oggi più unica che rara nel panorama politico italiano. Naturalmente mi auguro che chi deciderà di candidarsi accompagni la propria candidatura alla presentazione di una piattaforma politica più ampia della propria biografia o esperienza. Perché il carisma, l’autorevolezza, le competenze di nessuno di noi sono oggi sufficienti a rilanciare l’azione del Pd nel Paese. È importante che questa convinzione sia ben radicata in tutti i protagonisti di questo congresso, in chi correrà in prima persona come negli iscritti e negli elettori delle primarie. Questo congresso non è e non può essere un talent che ci porta a selezionare il più telegenico dei concorrenti, con relative tifoserie. Sarebbe un grave errore.
Il 2023 è anche un anno elettorale. Si vota in due importanti regioni, Lombardia e Lazio, come anche in Friuli-Venezia Giulia e Molise. E già si discute sulle alleanze: c’è chi guarda al Movimento5Stelle di Conte e chi ad Azione di Calenda. Siamo alle solite?
Il voto del 25 settembre ha dimostrato che la destra non è maggioranza nel Paese. La ragione per cui gode di una maggioranza in Parlamento risiede non solo nell’assurdità del meccanismo elettorale, ma anche e soprattutto nell’incapacità dei soggetti che non si riconoscono in quella visione di fare sintesi tra loro. Per quel che ci riguarda abbiamo sempre investito energie e pazienza nel cercare di costruire alleanze larghe e vincenti e in diversi appuntamenti elettorali abbiamo ottenuto risultati importanti grazie al successo di questo sforzo. Oggi, però, prima di discutere delle alleanze, dobbiamo ripartire dal nostro progetto per il Paese. Senza il Pd non è possibile costruire un’alternativa credibile alla destra. Senza il partito cardine del centrosinistra, nessuna alleanza può reggere e tanto meno vincere. In Lombardia come nel Lazio abbiamo presentato candidature solide e forti che ci permettono di essere competitivi, presto faremo lo stesso per il Friuli-Venezia Giulia ed il Molise. Chi decide di perseguire strade solitarie, immaginando magari di continuare di fare opposizione al Pd anziché alla destra commette un errore storico, i cui effetti sono già visibili a tutti nei primi atti del governo Meloni.
Dalla politica sui migranti agli indirizzi di politica economica e sociale. Letta evoca un Pd “pugnace”. Su quali priorità indirizzare questa “pugna”?
Lavoro, scuola, sanità pubblica. Esattamente quel che è più sotto attacco oggi, al netto delle bandierine ideologiche che il governo innalza per mascherare la sostanza del proprio operato. Nella lotta senza quartiere ai poveri, nei condoni, nella flat tax, nei tagli ai servizi essenziali, nell’idea di autonomia differenziata che divide il Paese, c’è tutto quello che la destra rappresenta e vuole. E la nostra opposizione deve partire da qui, dalla difesa del welfare e dal contrasto all’idea folle secondo la quale il compito di un governo è – come ha detto la presidente Meloni nel suo discorso di insediamento – il semplice “non disturbare”. In una società diseguale, nella quale i tassi di dispersione scolastica sono spaventosamente alti, dove i poveri crescono di numero e l’inflazione impoverisce le famiglie e restringe la capacità di fare fronte alle esigenze quotidiane, dove le imprese sono costrette a organizzarsi in turni di lavoro notturni per sostenere costi energetici diventati devastanti – il governo che decide di limitarsi a “non disturbare” si rende corresponsabile degli effetti della crisi sulle persone e sull’economia. Per quel che mi riguarda, ritengo poi che si debba riservare particolare attenzione all’operato del ministro Valditara, portatore di una visione conservatrice e classista, che vorrebbe fare della scuola una caserma dove chi sgarra viene mandato ai lavori forzati o umiliato pubblicamente. Se a questa visione si somma la volontà riportata nella bozza della manovra di fare di nuovo cassa sull’istruzione – riducendo il numero delle istituzioni scolastiche – il quadro è completo e rischia di compromettere non solo il presente, ma il futuro del Paese. È ormai dimostrato che il mancato investimento in istruzione (e ancora di più i tagli, naturalmente) è uno dei fattori che determinano la stagnazione o recessione a lungo termine. Un Paese come il nostro, che ha pagato caro almeno un decennio di mancata crescita – non può permettersi di ipotecare il proprio futuro per la miopia di un ministro e del suo governo.
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