L'intervista
Piano Draghi, Giorgio Arfaras: “Supermario non può stare in panchina. Sul rapporto servirà rapidità per evitare l’intervento dei sovranisti”
«C’è tutto», Giorgio Arfaras, economista del Centro Einaudi, ha appena finito di leggere il rapporto sulla competitività di Mario Draghi. Il suo commento è secco: «C’è tutto, ma è un problema di applicabilità». Dopo la sbornia dell’affaire Sangiuliano, in Italia, e le trame di Ursula von der Leyen per la nomina dei nuovi commissari, a Bruxelles, l’ex premier italiano suona la campanella. La nuova legislatura Ue parte da qui.
Professore, il documento è stato un “coming soon” della politica europea fin da prima delle elezioni di giugno scorso. Secondo lei, ha soddisfatto le attese?
«È un lavoro completo, ma anche bello da un punto di vista editoriale. La sua complessità non si limita ai contenuti, ma emerge anche alla vista. Per com’è scritto e per le spiegazioni grafiche di supporto. È l’apologia di Draghi, nella sua visione industriale, economica e geopolitica dell’Unione europea».
Qual è il messaggio che ci lascia?
«Che l’Europa deve adeguarsi. Siamo rimasti fermi alla seconda rivoluzione industriale. La nostra industria, fondata su motore a scoppio, chimica ed elettricità è anacronistica. Se il mondo non avesse fatto i passi che ha compiuto negli ultimi anni, in termini di nuove tecnologie ed eco-adattamento, oggi potremmo vantare ancora una certa competitività. Ma così non è. Le auto tedesche, a benzina e diesel, restano le migliori del mondo nel loro settore. Alla pari delle giapponesi. Solo che l’endotermico non è più di mercato. Questo è il bagno di realtà che l’ex Governatore della Bce ci invita a fare».
Con quale obiettivo?
«Il rapporto è chiaro. L’Europa deve investire su nuove tecnologie, decarbonizzazione e riposizionamento geopolitico, più nello specifico, indipendenza energetica e militare. All’atto pratico, la soluzione si declina in interventi pubblici che spingano quelli privati. Uno stimolo per uscire dall’ingessatura, aumentare il tasso di competitività e smontare il sistema oligopolistico che ci rallenta. Di fatto, è una sintesi tra politica industriale e antitrust».
Ma…
«Ma il problema sta nell’applicazione di quanto scritto. Banalmente: quale economia merita di essere sviluppata di più? Quella tedesca o quella francese? Quale grande impresa ha più ragione di essere sostenuta? Volkswagen o Stellantis?».
L’Europa ha una cabina di comando. Sta a Bruxelles decidere.
«Il paragone che Draghi fa è tra l’Europa e gli Stati Uniti. Non potrebbe essere altrimenti. Le differenze che ne emergono sono però difficili da superare. Negli Stati Uniti, la linea si stabilisce esclusivamente a Washington. Qui da noi, l’Ue può limitarsi a dare delle linee guida. Ma poi sono i governi nazionali a scegliere cosa fare. Inoltre, l’economia americana vanta specializzazioni produttive sui territori. Una caratteristica che noi non abbiamo. Qui tutti i Paesi fanno tutto. Più o meno bene. Infine, noi non possiamo permetterci di smontare lo Stato sociale. La nostra società è impegnata in maniera costante nella riduzione delle diseguaglianze. Se adottassimo lo stesso modello degli Stati Uniti, forzando la mano sulla società della conoscenza, rischieremmo di creare nuove differenze sociali e professionali, con significative ripercussioni politiche e quindi anche economiche».
Quindi teme che il rapporto possa creare delle opposizioni?
«Temo un’insorgenza anti-modernista/sovranista di chi ha paura che si metta mano al suo orticello. È per questo che Draghi dice di essere rapidi. Nel momento in cui c’è il passaggio – faccio per dire – tra chi produce candele a chi fa lampadine, i primi rischiano di essere esclusi. La loro riconversione deve prevederne un riassorbimento veloce, attraverso una ristrutturazione del sistema produttivo, che non può più basarsi su nano-imprese, e sul sistema scolastico, che deve fornire nuove competenze ai lavoratori».
Ma questa insorgenza c’è già.
«Eccome! Ma la si può ancora contenere. Serve una coalizione di forze che ruota intorno al Ppe, fatta di liberali, progressisti e conservatori ragionevoli».
In parte questa manovra si è realizzata con la seconda presidenza von der Leyen.
«Ma non è sufficiente. Se Giorgia Meloni si distaccasse definitivamente dal mondo euroscettico che ancora c’è in Fratelli d’Italia e se altrettanto facesse Marine Le Pen in Francia, se non altro per non perdere il sostegno lentamente ottenuto da una parte di elettori moderati, forse quei problemi di applicazione del rapporto Draghi sarebbero minori di quanto detto».
Un’ultima domanda, professore: che ci facciamo ora con Supermario?
«Certo non possiamo lasciarlo in panchina. Il problema è che, rispetto ai tempi del “whatever it takes”, nel 2012, oggi a Draghi mancano i titoli di Stato e il Quantitative easing. La carta che può giocarsi, e che non ci dispiace, è fare il Keynes dell’Europa dei nostri giorni. Il padre del Welfare State diede i natali al New Deal di Roosevelt senza alcun incarico. Potrebbe succedere lo stesso per Mario Draghi. E per il suo rapporto».
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