È scritto nel Vangelo “il vostro parlare sia: Sì, sì; no, no, poiché il di più viene dal maligno’’. Ma noi (direbbe Romano Prodi) siamo cattolici adulti e smaliziati, il nostro linguaggio è più flessibile, più ricco di sfumature, di doppi sensi: i sì diventato dei sì però, i no dei no ma. Le signore della politica italiana, al di là dei toni con cui affrontano i problemi e si apostrofano tra di loro, sanno fare largo uso delle varianti semantiche degli avverbi evangelici. Giorgia Meloni è solidale con l’Ucraina, le riconosce il diritto ad una pace giusta, ma l’Italia non manderà mai un solo soldato su quel terreno a meno che noi si tratti di una trasferta organizzata dall’Onu.

A braccetto con l’amministrazione americana

La premier è d’accordo con il piano di Ursula von der Leyen, però vuole che si proceda a braccetto con l’amministrazione americana perché, a suo avviso, sarebbe puerile e superficiale l’idea che l’Italia debba scegliere tra Stati Uniti e Europa. Poi, per non lasciare a Matteo Salvini neppure uno strapuntino su cui sedersi alla Casa Bianca, Meloni si dice d’accordo con il vicepresidente Usa JD Vance e le sue considerazioni svolte alla Conferenza di Monaco, perché come lei sostiene da anni, l’Europa si è un po’ persa. Dopo i pochi sì e i tanti no di Meloni non ci stupiremmo se Macron e Starmer smettessero di invitarla ai vertici dei c.d. volenterosi.

Gli incontri falliti

Ammesso (e non concesso) che appena uscita dall’Eliseo, la premier non si precipiti a trasmettere con bagaglio diplomatico a Trump gli appunti riservati presi durante le riunioni, è comunque evidente che le sue continue prese di distanza dai temi all’ordine del giorno fanno il gioco del tycoon. Perché da leader di un grande paese, per di più fondatore della Comunità, Meloni si può vantare come Gep Gambardella (il protagonista del film ‘’La grande bellezza’’) di essere grado di far riuscire o fallire gli incontri a cui partecipa. È facile profetizzare che non ci saranno spazi di mediazione e che, prima o poi, stare con Trump non significherà difendere l’Occidente, ma trovarsi alleati di fatto della Russia. Purtroppo, dall’altra parte dello schieramento politico non emergono segnali di chiarezza e razionalità.

Le accuse di Schlein

Da settimane le opposizioni invitano Meloni a scegliere tra Trump e l’Europa. Dopo l’intervista della premier al prestigioso FT, Elly Schlein, più agitata del solito, ha accusato Meloni di manomettere l’esposizione delle bandiere a Palazzo Chigi affinché adesso garrisca il vessillo a stelle e strisce al posto del tricolore e della bandiera blu dell’Unione. Eppure, a sinistra siamo nel territorio del no ma. Mettiamo il caso che Meloni cambi linea e si dichiari soddisfatta di essere riuscita a modificare in senso difensivo il nome del Piano Ursula e che, ora, il suo governo vi si atterrà puntualmente incrementando le spese militari, come chiedono l’Europa e la Nato. Su questo punto c’è già il no di Elly e della compagnia cantante che si porta dietro (che continuerebbe ad esserci). Aggiungiamo un’improvvisa disponibilità del governo ad aderire alla coalizione dei volonterosi e ad inviare reparti dell’esercito in Ucraina, senza chiedere il permesso a nessuno tranne che a Zelensky. La sinistra non sarebbe d’accordo. E allora che cosa dovrebbe fare Giorgia Meloni per scegliere l’Europa e mandare a quel paese Donald Trump? Come tante altre volte l’indicazione giusta viene dal Quirinale.

Secondo Sergio Mattarella le “decisioni nell’Unione europea” per affrontare il “nuovo contesto strategico internazionale” non “sono più rinviabili” e la “logica militare” resta “fondamentale per la difesa nazionale” dei nostri confini da invasioni ben più gravi di quelle dei migranti. Per essere europei occorre compiere qualunque azione rivolta a consentire all’Ucraina di reggere sul fronte, nella consapevolezza che le tregue e i ‘’cessate il fuoco’’ prima, gli armistizi e la pace poi, dipendono dalle posizioni degli eserciti sul campo di battaglia. Su queste problematiche il Pd non solo non è d’accordo con il Quirinale e la Commissione di Bruxelles, ma neppure con il Pse, e considera il premier laburista Keir Starmer un pericoloso guerrafondaio. Magari sotto sotto coltiva quella preoccupazione per il riarmo della Germania che nel 1954 portò alla bocciatura della CED. La linea di condotta scelta da quel grande Paese per la difesa dell’Europa e dei valori del mondo libero costituisce un’esigenza avvertita dalla maggioranza del popolo tedesco di rimettere un debito di sangue contratto con l’umanità nel secolo scorso.