La storia
Più diritti agli aborigeni, l’Australia dice “no”: bocciato il referendum per il riconoscimento delle comunità
Ad oggi la popolazione aborigena conta poche migliaia di unità, vive di proprie tradizioni religiose, ha una propria lingua, propri rituali, parallelamente ad uno stile di vita semplice fatto di caccia e raccolta, in zone impervie rese ospitali grazie a loro lavoro
Il 14 Ottobre 2023, in Australia, si è svolto uno storico referendum per il riconoscimento costituzionale delle comunità aborigene e la creazione di una consulta che avrebbe aiutato il governo nelle decisioni di forte impatto per le loro realtà. Sappiamo che l’Australia fu colonizzata dagli europei nel 17°secolo, piuttosto tardivamente, e questo per la difficoltà di raggiungere un continente immerso nella vastità dell’Oceano Pacifico. I colonizzatori, soprattutto Britannici, dopo svariate spedizioni europee, trovarono difficile la convivenza con i nativi del luogo e diedero vita ad uno sterminio degli aborigeni, i sopravvissuti furono confinati nel nord del territorio.
Ad oggi la popolazione aborigena conta poche migliaia di unità, vive di proprie tradizioni religiose, ha una propria lingua, propri rituali, parallelamente ad uno stile di vita semplice fatto di caccia e raccolta, in zone impervie rese ospitali grazie a loro. Da qui i motivi del referendum.
Per il sì mi ha incuriosito la posizione di un famoso attore australiano, Simon Baker, che ha voluto esporre pubblicamente i motivi che lo hanno spinto ad appoggiare la causa referendaria. Due i documenti pubblicati sul suo canale Instagram, uno prima e l’altro dopo il referendum.
Il primo, intitolato “Uluru Statement from the Heart” (Dichiarazione dal Cuore di Uluru), fa riferimento ad un invito rivolto dagli aborigeni agli australiani non indigeni. La dichiarazione venne condivisa per la prima volta nel 2017 e si articolava su tre punti: una maggiore considerazione dei diritti delle comunità indigene; una maggiore presa di coscienza sullo sterminio vissuto nei secoli precedenti ad opera degli europei, soprattutto nei confronti degli aborigeni dello Stretto di Torres; la creazione di una Consulta Aborigena in grado di collaborare con il Parlamento per riscattare i diritti negati delle popolazioni indigene.
Il secondo documento pubblicato il giorno dopo la sconfitta del Sì, intitolato “A Week of Silence for the Voice” (Una settimana di silenzio per la Voce) e firmato da quegli indigeni australiani che sostenevano la causa, riporta toni mesti e consapevoli della sconfitta che viene vista come momento per recuperare le energie e ricominciare a seminare per il futuro, consapevoli che una nuova “Voce” verrà data ai loro diritti. Il documento termina così: “We are calling a Week of Silence from tonight (Saturday 14th October) to grieve this outcome and reflect on its meaning and significance. […] Indiremo una settimana di silenzio da stasera (sabato 14 ottobre) per piangere questo risultato e riflettere sul suo significato”.
Di contro, per le ragioni del no, ho intervistato una ragazza, Teresa, 41 anni di Brisbane. A lei ho chiesto quale fosse la percezione nel Paese rispetto al referendum e la risposta che ne è seguita è stata molto articolata. Mi ha spiegato che “alcuni esponenti aborigeni erano per il NO ma l’aria che si respirava prima del voto era mista, sui social si propendeva per il sì”. Allora perché questa sconfitta? “Gli aborigeni hanno già tanti riconoscimenti dal governo australiano. Si pensi a tutte le volte che all’inizio di un evento bisogna eseguire il rito consuetudinario che dimostri di essere consapevoli di trovarsi su un terreno originariamente popolato dagli indigeni, dimostrando così il proprio rispetto nei loro confronti. (Acknowledgment of Country – Riconoscimento della terra). Credo non sia giusto riconoscere maggiori diritti ai nativi perché inasprirebbe ulteriormente i rapporti tra i moderni australiani e le comunità aborigene, già abbastanza compromessi”. E conclude: “Ideologicamente credo che il Primo Ministro Anthony Albanese (di origini italiane) avesse voluto dare vita ad una bella iniziativa, ma strutturata così, sarebbe stata potenzialmente pericolosa”.
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