Una grande storica e la manipolazione della storia operata per giustificare la guerra. E i rischi di un pensiero unico militarizzato. A parlarne con Il Riformista è Simona Colarizi, professore emerito di Storia Contemporanea all’Università di Roma La Sapienza. Per saperne di più, consigliamo la lettura, del suo libro, quanto mai attuale, Novecento d’Europa. L’illusione, l’odio, la speranza, l’incertezza (Laterza, Bari-Roma 2015).
Non c’è d’avere un po’ di paura quando autocrati o governanti vari cercano di riscrivere la Storia per legittimare la guerra?
Quando nega l’identità etnica dell’Ucraina, Putin falsifica la storia; una storia di “frontiere in movimento” che danno un carattere peculiare alla questione nazionale in tutti i territori orientali tra la Germania e la Russia. Quando parla di de-nazificare l’Ucraina, Putin dimentica la storia dei rapporti tormentati tra Ucraina e Unione Sovietica ai tempi di Stalin che aveva lasciato morire di fame cinque milioni di ucraini nel periodo della grande carestia (1932). Una tragedia indimenticabile alla quale si devono far risalire le simpatie per Hitler al momento dell’invasione nel ’41. Simpatie ben presto scomparse di fronte agli orrori dell’occupazione nazista, una tra le più brutali nell’elenco degli orrori vissuti dalle popolazioni europee, a oriente come a occidente. Alle porte di Kiev, a Babij Jar, si consumava la strage di massa di 35 mila ebrei, mentre a Odessa si contavano 50 mila vittime. Putin sembra aver dimenticato anche quale sia stata la risposta degli ucraini che alle violenze degli occupanti tedeschi oppongono una strenua resistenza, anch’essa fondamentale per far fallire l’invasione dell’Urss e spingere i tedeschi alla disastrosa ritirata. Putin non vuole neppure ricordare che l’Europa Occidentale con le sue libertà e il suo benessere era un faro irresistibile per le nazioni europee, dal 1945 iscritte nella sfera di influenza sovietica. La disgregazione accelerata dell’intero impero comunista di cui Putin ancora oggi si rammarica, si produce proprio sulla spinta dei popoli desiderosi di partecipare al processo di integrazione europea. Si può comprendere la volontà di Putin di riportare la Russia alla potenza e alle dimensioni territoriali di un tempo; ma la brutalità della guerra di aggressione all’Ucraina oggi non tiene conto di quanto profondi e diffusi siano in tutti i popoli appartenenti alla sfera dell’ex Unione Sovietica, i sentimenti di indipendenza nazionale e la volontà di autodeterminazione; diffusi per lo meno quanto il nazionalismo dei russi. A ben vedere Putin ha lanciato una sfida all’Europa proprio sul piano valoriale quando nel suo discorso allo stadio ha parlato con disprezzo di un mondo occidentale europeo privo di valori spirituali, sterile e cinico nel suo materialismo dominante, ormai incapace di sognare un futuro. Colpisce la forte eco dei discorsi di Mussolini nel ’39 quando il duce definiva le plutocrazie occidentali come Stati in estinzione, Stati con le culle vuote, svirilizzati, impotenti e incapaci di difendersi. Putin nell’aggredire l’Ucraina, ha probabilmente contato sulla passività della Ue che avrebbe lasciato alla Russia carta bianca nel perseguire i propri obiettivi di potenza, come già era avvento con l’occupazione della Crimea, sanzionata dalle potenze Occidentali con misure che servivano solo a salvare le apparenze.
Il pensiero unico in divisa, impazza nei talk show televisivi e sulle pagine dei giornali mainstream. Ma una sana dialettica non dovrebbe essere il sale di una democrazia?
Il “pensiero unico”, il “politicamente corretto” arrivato all’estremo della cancellazione del passato o nel caso della guerra all’Ucraina alla messa al bando della cultura russa, è la negazione del pensiero democratico che si sviluppa e si alimenta con lo stesso metodo della riflessione storica, impostata proprio sull’analisi degli elementi contrastanti attraverso i quali si determinano eventi e processi. Il pensiero unico pretende di trasmettere una “verità” senza misurarsi con le tante contraddizioni che marcano i processi del passato e del presente, suscettibili di altre interpretazioni, di altre “verità”. Il pensiero unico è antidemocratico nella sua pretesa di esprimere una “verità” immutabile e indiscutibile, perché l’essenza della democrazia sta invece nei suoi valori dinamici che evolvono nel tempo, si sviluppano, acquistano significati nuovi attraverso il confronto anche aspro che non consente la sclerosi del pensiero unico. La democrazia si alimenta proprio attraverso la contestazione del conformismo intellettuale, politico e istituzionale, malgrado il rischio distruttivo presente in ogni processo contestativo estremizzato, nella comune consapevolezza che la democrazia è imperfetta ma anche perfettibile. Altrettanto importante resta però la contestazione dei modelli liberticidi: le autocrazie, le dittature e i totalitarismi che hanno come attributo comune anche il bellicismo, che sono antitetici ai valori dell’Unione Europea e dell’Italia. Negare un’equidistanza tra democrazie e autocrazie non significa appiattirsi sul “pensiero unico”; significa invece rivendicare i propri valori come parametro imprescindibile per misurarsi con la realtà di un mondo plurale col quale si deve convivere.
Molto si è detto, scritto, sentenziato, sui recenti discorsi di Putin. Professoressa Colarizi, su cose inviterebbe a riflettere con più profondità e serietà di analisi e d’intenti?
Vede, le parole di Putin toccano un nervo scoperto nella coscienza degli intellettuali europei che da anni sono consapevoli di quale crisi affligga le democrazie occidentali dove l’avvento della nuova era globale, ha generato nei popoli incertezze e paure. Qualunquismi e sovranismi, populismi e movimenti antipolitici, antieuropei, anti-establishment, nuove e vecchie destre, nazionalismi, razzismi e antisemitismi hanno ricominciano a inquinare la vita civile e politica delle democrazie occidentali. Fenomeni culminati negli Stati Uniti con l’assalto a Capitol Hill nel gennaio 2021 e in Europa con la Brexit che ha spezzato un anello importante della UE. In questo scenario si colloca l’indifferenza crescente – e non da oggi – che ha segnato gli umori delle popolazioni occidentali di fronte alle emergenze belliche esplose dopo il 1989. E non mi riferisco solo alla ex Jugoslavia dove a partire dal 1992 si sono consumati orrori pari a quelli della seconda guerra mondiale; mi riferisco agli innumerevoli conflitti che da trent’anni insanguinano il Medioriente e la stessa Russia (Georgia, Cecenia).
C’è chi, di fronte a un mondo seminato da conflitti e guerre più o meno dimenticato, sembra rimpiangere i tempi della Guerra fredda e di una governance bipolare.
Il bipolarismo tra le due super potenze aveva assicurato un falso mondo di pace per gli europei che avevano chiuso gli occhi di fronte alle guerre calde che affliggevano tutti gli altri popoli della terra. Aprire gli occhi su questo scenario, confrontarsi con tutti i cambiamenti politici e geo politici, economici, sociali, culturali della nuova era globale aveva portato a quel ripiegamento su se stessi che significava anche perdita dei valori fondanti. Si perdeva la fiducia nelle democrazie giudicate incapaci di difendere l’uomo qualunque in balia delle nuove sfide; si guardava addirittura con ammirazione alle autocrazie – Russia, Cina – dove governi stabili garantivano l’ordine pubblico e la sicurezza dei loro cittadini. Abbagliati dalla crescita economica della Cina e dalla ricchezza delle materie prime possedute dalla Russia, non ci si curava di quanto liberticide e belliciste fossero queste dittature, malgrado l’evidenza di Hong Kong o della Georgia, della Cecenia, della stessa Siria. Le contemporanee guerre della Nato e degli Usa facevano da facile alibi alla mancanza di una riflessione approfondita, anche questo sintomo di quel qualunquismo diffuso che si alimentava nella sfiducia crescente nei confronti dei propri rappresentanti politici. I più ottimisti vedono segnali di una inversione di questa spirale declinante nella nuova compattezza degli Europei che hanno affrontato e stanno affrontando tutti insieme la sfida della pandemia e le sue conseguenze economiche e sociali. I più ottimisti intravedono nella reazione degli Stati democratici alla guerra in Ucraina la conferma che il processo di ricomposizione di una forte identità democratica sta continuando. (E naturalmente io me lo auguro).
La “sindrome dell’accerchiamento” che segna la Russia, e non solo i suoi vertici, è frutto solo di una narrazione strumentale o coglie un qualcosa che è, non da oggi, parte della “psicologia di una Nazione”?
La sindrome dell’accerchiamento di Putin risale al “cordone sanitario” del 1917 e alla “cortina di ferro” del 1946. In teoria, è la stessa sindrome che affligge le democrazie europee e gli Usa che temono il dilagare del comunismo nei loro territori. Da una parte e dall’altra la sindrome dell’accerchiamento ha portato alla conquista armata di territori in Europa e nel mondo, per rafforzare le proprie difese contro la minaccia del nemico comunista o capitalista. I protocolli segreti tra Hitler e Stalin nel ’39 aveva palesato l’Imperialismo “difensivo” dell’Urss, così come l’imperialismo “difensivo” degli Usa si era esercitato con aiuti economici e con armi alla Turchia nel 1947 (dottrina Truman). A seguire, la catena di guerre (per interposta persona) tra le due super potenze in tutto il mondo, ma anche quelle di conquista in prima persona – Vietnam per gli Usa, Afghanistan per l’Urss. Ma la storia successiva al 1989 cambia poco la logica di fondo che si applica anche alle nuove superpotenze comparse sulla scena globale. Detto questo, resta una differenza di fondo che sfugge alle analisi di chi attribuisce alla Nato tutte le colpe dell’accerchiamento alla Russia di Putin. Mi pare che si dimentichi di nuovo la storia della seconda guerra mondiale quando le potenze democratiche hanno messo l’antifascismo sulle loro bandiere, un simbolo che è rimasto anche dopo il ’45. I valori antifascisti nel loro significato di lotta agli Stati totalitari fascisti e nazisti che avevano negato libertà e diritti umani, si sono perpetuati anche al di là dell’epoca storica alla quale vanno ricondotti. Il che non significa naturalmente omettere l’analisi di tutte le contraddizioni che sono riscontrabili nella complessità delle situazioni di ieri e di oggi.
