Lo scacco matto della guerra
Ecco cosa ci manca, una grande potenza mondiale non militare: quella del pensiero
La guerra ha dato scacco matto alla politica. La devastazione di umanità è all’opera drammaticamente. Ciò che resta della politica, che è proprio poco, si interroga sulla colpa di Putin, sulle corresponsabilità dell’Occidente, su come trovare uno sbocco alla guerra che devasta il popolo ucraino. Credo sarebbe bene per l’oggi e ancor più per l’indomani, far crescere una ricerca parallela sulle cause per la quali siamo giunti a questa catastrofe, incominciando dal vuoto della politica. La ricerca della potenza perduta ha messo gli Stati sulla cattiva strada. Ciò che manca non è certo la potenza economica né quella militare, ciò che è andata perduta è la potenza del pensiero politico. Né ci si può fermare ai primi stadi del fenomeno.
Nel mondo, nel secondo dopoguerra, la logica di potenza si impadronisce degli Stati quando viene meno la grande politica, un tempo essa si chiamava di coesistenza pacifica, che è poi la politica della pace. Per l’Europa sarebbe il costituirsi politicamente secondo la sua vocazione di ponte tra nord e sud, tra est e ovest. “L’Europa delle traduzioni”, diceva Étienne Balibar, l’Europa della neutralità come forza di pace nel mondo intero, si potrebbe aggiungere. Al suo interno, anche solo per potersi costituire come tale, essa dovrebbe pure riscoprire la grande politica. Ricordate Ventotene? Quello è in primo luogo la capacità di pensare e di perseguire un’alternativa all’attuale modello economico, sociale, demografico, attraverso la rinascita della politica e della messa a valore del conflitto, a partire da quello delle idee.
Ora, siamo di fronte a una crisi non solo dei soggetti politici, ma proprio della politica. Per come l’abbiamo conosciuta e vissuta nella seconda metà del Novecento, dopo la vittoria sui nazifascisti che, anche con le costituzioni democratiche, sembrava poter avviare un nuovo ciclo nel mondo intero. I sociologi e gli economisti li hanno chiamati i trent’anni gloriosi, quella storia lì era nuova ma si fondava sul Novecento ed è finita con il Novecento. Finisce con una sconfitta delle forze che in forme diverse avevano pensato a un nuovo mondo, in forme diverse perché in fondo era quello che aveva costituito anche il patto costituzionale in Italia, cattolici in politica, comunisti, socialisti, le componenti laiche ne erano state protagoniste. Quel fronte perde per due ragioni: una interna, mi riferisco soprattutto alle forze del Movimento operaio, che dopo la grande speranza del cambiamento radicale negli anni Settanta non ce la fanno a compiere il passaggio della costruzione di un nuovo modello di civiltà. Esse perdono contro una rivoluzione restauratrice, che prima si chiama “globalizzazione capitalistica”, e dopo si chiamerà “capitalismo finanziario globale”.
Questo vince la partita anche perché con il Novecento crolla quell’Unione sovietica, la cui presenza malgrado gli errori e gli orrori drammatici che l’hanno portata alla sconfitta, testimoniava la possibilità di un mondo diverso e premeva sul capitalismo affinché cercasse un compromesso da questa parte del mondo con le classi subalterne. Quindi, il crollo ha radici interne perché c’è un limite delle forze e dei movimenti riformatori in Occidente e crolla per ragioni esterne, la fine del mondo diviso in due blocchi contrapposti, la fine dell’Unione sovietica e l’aumento di questo nuovo capitalismo. Questo processo ha divorato la politica, la politica è diventata semplicemente la governabilità dell’Occidente e altrove l’affermazione dell’autoritarismo, non c’è più l’orizzonte, non c’è più la speranza, la possibilità di confidare in un altro tipo di giustizia, di libertà, di umanità, quella che a cui pensava l’art. 3 della Costituzione repubblicana. Il nuovo capitalismo che sta avanzando ha una condizione più grande del precedente, quasi antropologica, quella di creare l’individualismo del mercato. E così, la drammatica scomparsa della politica fa sì che l’unico testimone critico di questa ambizione, in questo tempo drammatico, dotato di autorevolezza, sia il Pontefice. Sono le encicliche di Papa Francesco, sono la sua testimonianza quotidiana.
Viene subito in mente la differenza radicale con la stagione in cui viveva la politica. Viene in mente un altro grande pontefice, Giovanni XXIII. Ma quel Papa interloquiva con la politica. Oggi, il Papa parla nel deserto, tanto che per molti il suo messaggio viene equivocato come politico, quando invece semplicemente è testimonianza del Vangelo. Un elemento devastante nel rapporto tra la politica e il popolo è la scomparsa della sinistra politica e con essa della speranza. Si capisce che tanta parte di gente comune possa in questo deserto essere attratta dal conflitto orizzontale, dalla paura dell’immigrato, dal leghismo, dal populismo, che sono gli effetti e non la causa di questa crisi profonda. Il vuoto è spaventoso, non c’è più una parola forte che pesi nella società, nella politica da parte della sinistra. Nella crisi si è fatta avanti allora una supplenza, molto preoccupante è che questa supplenza sia una tendenza a un governo tecnico-oligarchico, cioè a un ulteriore approfondimento della crisi della democrazia rappresentativa, con il popolo investito da una destrutturazione. Ogni volta, lo svuotamento della democrazia è dettato da uno stato di necessità, siamo in un’emergenza permanente. La causa prima non è il Covid, che casomai la amplifica, non è neppure la tragedia disumana della guerra, che è pure il male assoluto, ma è il modello sociale che genera povertà e fratture sociali.
Guardando alla politica ci si chiede come si è arrivati a questa catastrofe che la guerra di Putin ha determinato e messo in rilievo, quali sono gli interessi in campo, cosa continuiamo ad attenderci da questo braccio di ferro dentro l’Europa. La causa prima, la causa lontana, ma pesante, di questo sbocco tragico è l’ingovernabilità. La realtà dei fatti su tutto lo scacchiere mondiale propone sistematicamente l’inesistenza di una capacità di governo dei conflitti, la diffusione dei conflitti anche armati e l’instabilità permanente. Bisogna certo sottrarsi alla sollecitazione dei nostalgici del mondo diviso in due blocchi contrapposti, in cui la pace paradossalmente era presidiata dal reciproco ricatto della guerra atomica. Però ho il dubbio che quel terribile governo sia stato sostituito da un disordine sistematico, permanente, dal vuoto della grande politica. Si può solo citare sempre il Papa che, in solitudine, ha parlato della Terza guerra mondiale a pezzi. Pare possibile che una delle più alte autorità mondiali del mondo usi una definizione così drammatica e non incontri sul campo un solo capo di Stato, un leader politico autorevole che si confronti con quest’analisi anche per dirgli: “Santità, lei si sbaglia”, oppure per dirgli: “Santità, ha ragione, dobbiamo correre ai rimedi”. Niente.
Il Papa ha parlato con quell’autorevolezza nel silenzio della politica e i fatti sono andati avanti. Terza guerra mondiale a pezzi, e oggi uno di questi pezzi drammaticamente è l’Ucraina, ieri potevano investire, nella distrazione generale, l’Africa centrale. Gli ingressi immediati di micropotenze e anche di conflitti barbarici si affermano in assenza della grande politica su scala mondiale. C’è qualcuno che in questa crisi si sia accorto dell’esistenza delle Nazioni Unite? Anche le Nazioni Unite erano figlie di una visione che avrebbe dovuto inaugurare una nuova epoca, l’epoca della pace universale. Guardiamo com’è fallita la grande illusione secondo cui il crollo dell’Unione sovietica avrebbe determinato il mondo delle libertà. Invece si è rivelato progressivamente il mondo dell’incertezza, della precarietà, della diseguaglianza, che è cresciuta nel mondo come all’interno dei singoli Paesi, ed è questo che determina l’incertezza fondamentale insieme a quell’economia di rapina che le grandi potenze hanno applicato anche alle nuove materie prime.
In questo scenario, può sempre prodursi l’evento tragico della guerra, solo che a noi la guerra impressiona quando è vicina e ha conseguenze economiche sulla nostra vita. Lontana ci appare meno drammatica. Senza intendere invece che è proprio in questo disordine che si produce la contesa per l’acquisizione delle risorse fondamentali da parte dei potenti e la contesa per chi deve essere il più potente tra i potenti. È il ritorno regressivo a un passato che credevamo lontano. Risorgono da lì i più feroci nazionalismi e l’idea dello Stato forte; Stati forti che confliggono tra loro nella logica di potenza. I nazionalismi e la logica di potenza sono i “nuovi fattori del rischio” su scala mondiale. Essi si intrecciano ai rischi che si producono all’interno delle singole società. Ogni volta che si produce un clima di crisi acuta, sia endogeno che esogeno, questo causa un aggravamento delle diseguaglianze e una disintegrazione dell’unità dei popoli. La crisi è come la dilatazione della tendenza in corso che si vede meno quando non è in atto il manifestarsi in pieno di una crisi. È stato così con la pandemia, è così tragicamente con la guerra, può essere così con le conseguenze della crisi energetica. Le diseguaglianze vengono alimentate dallo sviluppo nella crescita e vengono dilatate nella crisi, ma è il modello economico e sociale che va messo in discussione se si vuole perseguire la pace come la salvezza del pianeta. Basti pensare all’ultimo episodio energetico e alle sue conseguenze sui prezzi. È solo un esempio, naturalmente. C’è un aumento consistente nelle tariffe, ma noi, negli anni, ci siamo preclusi l’intervento pubblico nell’economia.
Ci siamo preclusi la possibilità di fare politiche tariffarie pubbliche contro la logica di mercato e in favore di promozione di attività e realtà sociali ed ecologiche. Ora questo disastro tariffario colpisce le famiglie e le imprese. Per poter fare una politica di sostegno nei confronti di questa emergenza energetica, si dovrebbe pensare a una politica fiscale totalmente diversa da quella in atto, in grado di colpire efficacemente le grandi ricchezze, a partire dall’accumulo di ricchezze prodotto in questo periodo, e ridistribuirlo a favore degli Stati più disagiati. Altrimenti, siamo sempre a discutere sugli indici di bilancio che inibiscono qualunque politica sociale decente. Questo nell’immediato. Più di fondo, una potenza come la Germania ha pensato a una politica che puntasse a un’energia pulita, anche tra molte contraddizioni; noi abbiamo costruito Ministeri sempre privi di opzioni di fondo, senza pensare a quale connessione, tra le nuove politiche energetiche e le nuove politiche sociali necessarie.
Chi paga i prezzi economici della riconversione energetica nella transizione? Se si pensa che la paghino i ceti popolari, allora si deve avere una politica di distribuzione della ricchezza per impedirlo: serve una grande riforma. La politica dimostra la sua inutilità, precisamente nella mancanza di una visione strategica. Vale a livello mondiale, nella mancanza di qualunque forma di avvio di una politica di governo mondiale, sia nelle realtà nazionali, in queste in Europa si è affermata l’idea di sostituire i governi politici con governo di fatto tecnici. Il governo tecnico fa scelte che vorrebbe neutrali, ma in realtà esse sono sempre di classe.
A livello mondiale, la guerra sancisce drammaticamente il fallimento della grande politica. Dentro ogni singolo Paese, la stessa deficienza produce la crisi sociale e la crisi delle soggettività necessarie a pensare a un popolo nel mondo. Il governo fa scelte che vorrebbe neutre, quando sono di classe. La mancanza sulla scena internazionale di una visione del mondo nuovo vede occupare questo vuoto dal ritorno del primato di una politica di potenza e dall’esasperazione dei nazionalismi. Chi vuole la pace, oltre a impegnarsi qui e ora per fermare la guerra di Putin in Ucraina, deve proporsi di sconfiggere l’uno e gli altri. La pace riposa in primo luogo sull’idea di una nuova politica.
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