La premessa alla quale mi obbligo – sentendomi anche io, da sempre e ancora, un attivista contro la guerra, consapevole dell’orrore che rappresenta per l’umanità e convinto che non ne esistano di giuste – è questa: penso che formule come il “né, né” e il “senza se e senza ma”, che devo dire non mi hanno mai convinto molto, non vadano proprio più bene. Secondo me il momento è pieno di tragedia e pericolosità, di dubbi e di incertezze, per scegliere formule utilizzate in tutte le stagioni. Sono invece convinto che ogni pratica radicale debba abitare questo mondo, per quanto a volte orribile. Senza provare a rifugiarsi altrove, anche se verrebbe quasi naturale farlo oggi. Penso che a ogni pratica radicale vada associato un pensiero flessibile, aperto, pieno di sfumature e di possibilità. Di molti “se e di molti ma” insomma. Di questo vorrei, da oggi in poi, sapermi dotare. Sì, perché c’è un “da oggi in poi”. La guerra in Europa nel terzo millennio è un “da oggi in poi”.

In questo continente siamo in guerra, nonostante noi. Inutile rifugiarsi dentro geometriche alleanze militari, o diplomatici equilibrismi mercantili. Lo spazio storico, politico, geografico, culturale che chiamiamo Europa, è in guerra. Che lo vogliamo o no. La Russia è Europa. L’Ucraina è Europa. Colpa nostra se abbiamo scelto di vederne solo un pezzo finora, di questa Europa. Dopo il crollo del Muro, abbiamo continuato a rivolgere occhi e la testa solo oltre Atlantico. Ci siamo giocati trent’anni di sospensione, che potevano essere utili per costruirla la pace possibile e necessaria. Perché la pace si costruisce, si conquista, e non è la pausa tra una guerra e l’altra. Adesso è affare nostro, di europei, quello che accade a Mosca e a Kiev. È affare nostro aiutare chi in Russia sta tentando, anche in questi giorni, di sovvertire una petro-oligarchia poliziesca e militare, come è affare nostro impedire che la resistenza a una guerra di invasione in Ucraina, sacrosanta come il diritto a difendersi dalle violenze dei più forti e spietati, venga utilizzata da altri come una “guerra per procura” che ha come carne da macello le donne, gli uomini e i bambini ucraini, e gonfi a dismisura il nazionalismo foriero di tante tragedie. Il tema per me dunque, non è SE ma COME.

Sull’invio delle armi all’esercito ucraino ci si può dividere anche se, per come si sono messe le cose, rischia di essere un dibattito superato. Io ad esempio sono convinto che in questa maniera, inviando armi all’esercito ucraino, si alimenti la “guerra per procura” più che aiutare la resistenza. Politicamente e militarmente. In un articolo del Washington Post di qualche giorno fa, si poteva leggere la notizia che il Pentagono, conoscendo esattamente il piano di invasione di Putin, fin dall’inizio di dicembre aveva accelerato l’invio di armi a Kiev. Gli addestratori Usa, attraverso un lungo programma terminato a gennaio, hanno formato diecimila soldati delle forze speciali ucraine per la strategia di “una guerriglia urbana di lungo termine”. Perché? Per due sostanziali motivi. Il primo di tipo militare: solo una forma di guerriglia può causare seri problemi sul campo a un gigante dalla forza soverchiante ma dai movimenti necessariamente poco agili e con la simpatia di un esercito occupante. Davide usò una fionda contro Golia. Il secondo di tipo politico: la forma “immaginabile” di una guerra tra due potenze nucleari che detengono da sole il 90 per cento di tutto il potenziale esistente al mondo, in campo militare, è quella per procura, “Proxy War”, come teorizzano gli strateghi con le stellette. Da sottolineare che per il Pentagono, il tema non era vincere sul campo con la resa di Putin, ma impantanarlo in una specie di Afghanistan nel cuore dell’Europa.

Ma qual è la variabile che ha cambiato di molto le cose? Gli Ucraini. La loro determinazione, il loro partecipare in mille forme, e anche dall’estero per quelli che non erano in patria, a movimenti di opposizione all’invasione. L’assedio delle città, cinico, estenuante, il bombardamento continuo di notte, affamare, assetare, terrorizzare sono tutte strategie rivolte ai civili. I militari, addestrati, mica hanno di questi problemi. Sono le madri, i bambini piccoli, i ragazzi che costruiscono molotov dentro il loro liceo o organizzano rifugi negli scantinati degli oratori, i nemici peggiori da combattere per Putin. È il “sentimento” quello da piegare, e non riguarda quante mitragliatrici hai o quanti missili: di quelli è pieno il mondo. Ma il sentimento, l’amore fino a morire per un tuo vicino, il coraggio, l’abbraccio di tuo figlio, queste cose non si comprano all’expo delle armi di Dubai. Le madri dei soldati russi mandati a morire dal despota del Cremlino, hanno contestato l’altro giorno il governatore di una lontana regione della Siberia. Manco sapevano dove fossero morti. Dalla Siberia, dalla Cecenia, dalla Siria sono state prese le prime file, la “carne da cannone” della grande armata. Putin deve oscurare i social e mette in galera chiunque osi “dire” che si tratta di una guerra, figurarsi descriverne tutta la sua assurda disumanità. Eppure, anche lì, nel ventre della Bestia, si lotta, ci si organizza, si “cospira”.

Dare il messaggio di una escalation militare, come hanno fatto i governi europei sobbalzati di colpo al gong come un pugile suonato (ma sempre all’ultimo momento si svegliano questi che stanno nella famosa “stanza dei bottoni”?) ha immediatamente dato una spinta al riarmo. Eppure è proprio il “Vis Pacem para bellum” che è saltato. A sentire oggi le dichiarazioni americane e anglosassoni sulla fornitura di jet tramite la Polonia, alle forze armate ucraine, sembrerebbe che qualche alleato fuori di testa stavolta, stia davvero spingendo per la terza guerra mondiale. In questo gioco pericoloso e imprevedibile, dovevamo puntare, da subito, sull’unica cosa che non abbiamo fatto: essere quel paese che l’asticella la alzava, in Europa, sulla politica e non su chi riforniva più armi all’Ucraina. Anche perché il paradosso è che i missili e i carri armati di Putin li stiamo pagando noi, con l’acquisto di gas e petrolio russo: uniche cose che le sanzioni non possono né vogliono toccare, a meno che non si proponga una scelta ai propri popoli, alle proprie opinioni pubbliche, e io sarei d’accordo, di “condividere” questo momento con i fratelli e sorelle ucraini, e vivere in povertà per un po’, con meno gas e petrolio. Anche per motivi etici. Avremmo dovuto noi, l’Italia, essere tra i protagonisti di una proposta in controtendenza rispetto alla spirale idiota del “chi è più maschio” e lo scrivo perché penso che anche questo sia parte del problema.

Un negoziato lasciato nelle mani di Putin e di Zelensky, con uno che punta la pistola alla tempia dell’altro, mentre gli chiede se è disposto a trattare, è davvero una vergogna. Un tavolino organizzato nella baita di Lukashenko, un podestà. Quello che manca, e speriamo non arrivi mai il momento in cui si dica che è troppo tardi, è una grande proposta di negoziazione, dove sul piatto non ci siano solo i corridoi umanitari per tentare di salvare le persone in ostaggio della guerra, cosa fondamentale e al primo posto, ma anche una contropartita vera, politica, diplomatica e anche di sicurezza, per poterli ottenere davvero. Siamo disposti a ragionare sull’assetto della nuova Europa, che possa essere condiviso, che vada oltre la dipendenza dal solo equilibrio tra due superpotenze in un mondo senza per fortuna, nessuna cortina di ferro possibile? Essere l’Europa insomma. La resistenza ha mille forme. Anche quelle dell’aiutare i profughi di questa e di tutte le guerre ad attraversare i confini. Il confine, Krajina, viene inteso dal potere solo come un muro. E invece è sempre stato, da millenni, anche un crocevia, lì dove si sperimentano nuove forme di vita e nascono nuove relazioni. Nella lotta per la vita e contro la morte.