Il tabellone elettronico delle votazioni nell’aula del Senato è tutto verde. Come non lo è mai stato in questa legislatura. Neppure nei momenti più duri della pandemia. 244 sì, 13 no, tre astenuti. Anche Fratelli d’Italia ha votato a favore dell’invio delle armi in Ucraina, nei fatti all’ingresso nel conflitto dell’Italia al fianco di tutta la Ue e la Nato. «Oggi siamo tutti ucraini, quindi piena adesione di Fratelli d’Italia all’ iniziativa di tutto il Parlamento», ha detto Ignazio La Russa spiegando il voto a favore del gruppo. Ha votato a favore il Movimento 5 Stelle che pure aveva doppio motivo di mal di pancia: l’invio delle armi e la prospettiva, in caso di emergenza energetica, di tornare ad usare il carbone “per quel che servirà, se dovesse servire”.

Non ce l’ha fatta Vito Petrocelli, presidente della commissione Esteri al Senato: pacifista convinto, aveva chiesto libertà di coscienza e ha votato contro. Quasi unanimità anche alla Camera, dove la risoluzione passa con un solo voto contrario, ma con 25 parlamentari che si dissociano dalla decisione di inviare le armi. La quasi unanimità è una piccola consolazione di fronte al disastro di quando sta avvenendo sul campo in Ucraina, case distrutte, cadaveri scaricati dai camion, un popolo di donne e bambini in fuga, gli uomini, i ragazzi che restano per resistere mentre ora dopo ora le truppe russe avanzano a tenaglia verso le città per poi entrare e conquistarle. È questione di ore. E però in questo momento grave che segna la storia, è importante sapere che questo Parlamento rissoso, pieno di “se”, “ma” e “però” ha saputo trovare il coraggio e la forza, soprattutto per i più pacifisti, di votare a favore delle risoluzioni del presidente Draghi e del decreto che già in queste ore sta rifornendo armi alla resistenza ucraina e al governo di Zelesnsky.

La consegna è affidata alla missione Nato. Il canale è tramite la Polonia. Ma le operazioni sono più lente del previsto. In serata, alla Camera, il colore verde è stato ancora più netto e confortante. Draghi ha parlato per mezz’ora, alla Camera e al Senato, e poi replicato alla fine di un dibattito alto e solenne. Un discorso duro quello del premier, a tratti drammatico, aiutato da 26 applausi. Ha parlato di “svolta decisiva nella storia europea”, di “fine delle illusioni” cioè “dare per scontate pace, sicurezza, benessere”, di «aggressione premeditata e immotivata da parte della Russia, un paese a noi vicino che ci porta indietro di ottant’anni». Citando Robert Kagan, Draghi ha parlato del “ritorno della giungla della storia” e delle sue «liane che vogliono avvolgere il giardino di pace in cui eravamo convinti di abitare». L’Italia non vuole voltarsi dall’altra parte perché «tollerare una guerra d’aggressione nei confronti di uno Stato sovrano europeo vorrebbe dire mettere a rischio la pace e la sicurezza di ciascuno di noi». Ecco perché all’appello del presidente Zelensky che ha chiesto aiuti militari per proteggersi dall’aggressione russa «non è possibile rispondere solo con incoraggiamenti e atti di deterrenza. Questa è la posizione dell’Italia, dell’Europa e di tutti i nostri alleati».

Draghi ha ben bilanciato l’intervento tra pragmatismo (la necessità delle armi), umanesimo (porta aperte ai profughi senza i lacci della burocrazia per gli stranieri), accoglienza reale e non pelosa (quella per docenti universitari e studenti), lucidità nell’elencare le durissime sanzioni economiche e finanziarie e le «misure per ridurre la dipendenza italiana dalla Russia per le fonti di energia» visto che importiamo il 95% del gas che consumiamo e oltre il 40% arriva dalla Russia. Lucidità di analisi quando, in replica al Senato, ha detto: «Non ho dubbi che ci sia stata molte premeditazione e preparazione nelle azioni del Cremlino». Fa un esempio raffinato ed eloquente quando spiega che «non resta quasi più nulla nei depositi presso le banche centrali in giro per il mondo delle riserve dalla Banca centrale russa. Queste operazioni non si fanno in un giorno ma in molti mesi». Draghi è stato ieri più di sempre un leader politico che ha chiesto e ottenuto fiducia. Ricordando quello del whatever it takes, costi quel che costi. «Finché ho potuto ho cercato il dialogo. Ho sperato fino alla fine che si potesse evitare questa mostruosità. Non ci siamo riusciti anche perché era tutto premeditato da molto tempo. Io continuerò a cercare il dialogo e la pace con tutta la mia volontà ma oggi questo è difficile con colonne di carri armati lunghe 60 km che stanno circondando le città».

Il dibattito di ieri, il confronto di questi giorni tra le forze parlamentari, sono, nella tragedia, un’occasione per tutti. Per Draghi, che cancella il mese buio del Quirinale e prova a riconquistare la fiducia del Parlamento e dell’opinione pubblica. Non più un premier tecnico ma un leader politico che si prende sulle spalle il peso della storia guidando il paese tutto “dalla parte giusta”. E rassicurando quello che non ci sta. Un premier che tenta di risolvere le tensioni diplomatiche con Bruxelles, Parigi e Berlino che hanno guardato con diffidenza gli sforzi diplomatici di palazzo Chigi e, soprattutto, la presenza in maggioranza di due partiti come Lega e 5 Stelle che fino al 2020 hanno assiduamente frequentato Mosca come ospiti d’onore nei congressi del partito di Putin. È stato bravo Valentino Valentini, l’uomo della diplomazia ai tempi dei governi Berlusconi, a prendere le distanze senza se e senza ma dall’ex amico Putin diventato “aggressore”.
Il voto di ieri, e il dibattito di questi giorni, è un’occasione per Matteo Salvini e Giorgia Meloni che possono provare a mostrarsi “affidabili” rispetto all’Europa.

Certo, la leader di Fdi lo fa cedendo alla retorica muscolare e nazionalista e accusando l’Europa di non aver capito nulla in questi anni mentre perdeva tempo dietro sanzioni, regole di bilancio e “discussioni sul gender”. E Matteo Salvini, nei panni di un pacifista convinto, lo fa punteggiando il suo voto a favore di dubbi e raccomandazioni in nome del dialogo, della diplomazia e della pace. Il segretario dem Enrico Letta ha saputo gestire i dubbi nei suoi gruppi: «La decisione di inviare armi è la più difficile ma in linea con la Costituzione». Ancora più sofferto il sì di Leu: «Stiamo con lei, presidente Draghi – ha detto Federico Fornero –e con la Ue ma il nostro orizzonte non può essere la guerra». Tra mal di pancia e dubbi che restano, a destra e a sinistra, ieri il Parlamento ha deciso con una scelta grave e responsabile da che parte stare: quella dell’Europa che ha saputo rispondere, ha sottolineato Draghi, “in modo fermo, pronto, rapido e unito”. Un cambiamento “importantissimo”.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.