Come per l’analisi di tutti gli eventi storici, e la vicenda ucraina certamente lo è, l’attenzione dev’essere rivolta alle tre dimensioni del tempo: passato, presente e futuro. Certo, adesso, non può che dominare il presente, la tragedia, la reazione indignata o le contromisure da assumere, la recriminazione o la solidarietà umana per le vittime incolpevoli di questo drammatico risiko geopolitico. E, guardando dall’Occidente, non possiamo certo rinunciare a proclamare quei valori di libertà, autodeterminazione e democrazia, che sono alla base delle nostre società e incastonati nelle nostre costituzioni. Ma, rispetto a quest’ultimo aspetto, di fronte alle immagini di morte, di fronte all’acre odore della guerra e alle macerie dei palazzi bombardati, non possiamo limitarci a una, pur importante, proclamazione di quei valori.

Quello che sta accadendo, infatti, sfida il modello liberal-democratico in uno dei suoi aspetti più problematici: la sua proiezione internazionale. E qui entra in gioco il recente passato. Dopo la caduta del muro di Berlino si è aperta una fase che oggi è definitivamente chiusa: quella dell’unilateralismo. L’idea che, finita la guerra fredda fosse finita anche la storia e che fosse legittimo pensare a una quasi naturale espansione planetaria degli ideali liberal-democratici. Una espansione che fosse possibile rendere oggetto della politica estera degli stati occidentali e in particolare della superpotenza sopravvissuta: gli Stati Uniti. È un’idea di ingegneria politico-sociale trasferita sul piano delle relazioni internazionali, che ha giustificato anche interventi militari o iniziative non sempre coerenti con i valori stessi della liberal-democrazia. Perpetrati pur di perseguire il più alto obiettivo della sua diffusione. Una versione “a fin di bene” del vecchio adagio che il fine giustifica i mezzi. Questo approccio, sostanzialmente condiviso dalle amministrazioni americane fin dal 1989 e largamente sostenuto dalle democrazie occidentali si è rivelato, a dir poco ottimistico, se non addirittura talvolta miope e controproducente.

Lo abbiamo visto a distanza nell’epilogo della vicenda afgana e lo vediamo oggi nella tragedia Ucraina. L’Occidente dovrebbe chiedere scusa all’Ucraina, per aver fatto o lasciato intuire promesse che, nel contesto geopolitico, non poteva mantenere. Per aver fatto credere che la via per una emancipazione all’insegna degli ideali liberal-democratici potesse essere percorsa senza correre altissimi rischi, come quello che si sta materializzando oggi. L’Occidente doveva sapere e dire che la promessa (forse solo simbolica), ma certamente percepita, di un’integrazione dell’Ucraina nella Nato non era e non poteva essere né credibile, né sostenibile. E lo stesso è da dirsi, probabilmente, persino per l’ipotesi di integrazione nell’Unione europea. L’Occidente doveva sapere e dire che il sostegno all’Ucraina, in nome di quei principi liberal-democratici, rispetto al rischio di aggressioni esterne, avrebbe avuto dei grandi limiti. Non solo per l’impraticabilità della guerra “calda” nucleare, ma anche perché il sostituto funzionale della guerra, e cioè le sanzioni, per quanto dure potranno essere, avranno delle conseguenze anche per le economie dei paesi che le dispongono e per l’economia mondiale. Così da non poter essere sostenute a lungo su questa scala, in un mondo così globalizzato e interdipendente. O funzionano presto o dovranno, prima o poi, essere alleggerite.

L’Ucraina oggi non fa solo rivivere lo spettro della guerra in casa dell’Europa (peraltro dopo che il Covid ha fatto rivivere lo spettro della morte come fatto pubblico) con il suo carico di distruzione che si abbatte su persone, in carne e ossa, che ci sono accanto fisicamente (e non sono attori di una delle tante serie TV). L’Ucraina, oggi, è la pietra di inciampo di una visione delle relazioni internazionali che aveva rimosso dal dibattito pubblico il realismo e la realpolitik (magari continuando a praticarlo cinicamente). E alimentando, nell’opinione pubblica, l’idea che le conquiste di civiltà si sarebbero presto globalizzate. Perché il vero nodo, quello che le liberal-democrazie non hanno sciolto (illudendo se stesse e gli altri sul fatto che lo si sarebbe potuto facilmente sciogliere) è che la liberal-democrazia non solo non si esporta, ma fronteggia, a livello delle relazioni internazionali, ostacoli che non possono essere minimizzati o ignorati. L’illusione della fine della storia, e forse anche degli stati nazionali e sovrani, l’idea della pace perpetua, del governo democratico mondiale, che ha intriso molta retorica post-1989, quantomeno con riferimento agli scacchieri geopolitici più prossimi all’Occidente e all’Europa, oggi è definitivamente tramontata. Con buona pace delle dichiarazioni solenni e dei pugni sul tavolo in nome della libertà e della democrazia.

Per questo anche nel vivo della tragedia non si può omettere di considerare la terza dimensione a cui accennavo: il futuro. Il futuro dell’Ucraina, ma anche il futuro delle relazioni internazionali. E in questo futuro due dati sono ineludibili soprattutto rispetto al passato post-guerra fredda. Il primo è che il mondo è tornato ad essere multipolare. L’atteggiamento cinese rispetto alla vicenda russo-ucraina non potrebbe renderlo più evidente. Il secondo è che è necessario un bagno di realismo e un atteggiamento (almeno nella narrazione ufficiale) meno ingenuo sulla democrazia “oltre i confini nazionali”. Il sistema delle relazioni internazionali è un sistema che è sempre stato e resterà anarchico (altro che governi mondiali). Nel quale la gestione delle relazioni internazionali richiederà ingredienti tradizionali come la deterrenza, il compromesso, oltre che soluzioni nuove. Tanto più che essa è complicata da un’interdipendenza economica ormai inestricabile e in grado di determinare “rinculi” su tutto il pianeta per ogni evento che accada anche nei luoghi più remoti.

Inoltre, non può essere mai dimenticato che, in questa anarchia, i protagonisti, anche quelli che aspirano alla dimensione di media o grande potenza, non condividono tra di loro gli stessi valori. Certamente non quelli liberal-democratici (come dimostrano tutti i declinanti indici di diffusione di questo modello). E che malgrado ciò continueranno ad esistere e ad esercitare influenza nel mondo. Bollarli come “i cattivi”, non ridurrà la necessità di doverci fare i conti. Perché questa è la politica internazionale. I Putin non sono un residuo del passato autoritario, contro cui indignarsi soprattutto perché non si piega alle magnifiche sorti e progressive della liberal-democrazia. I Putin sono una realtà del presente con cui è necessario convivere. Illuderci e illudere che in un futuro prossimo possa non essere così, può forse servire a solleticare desideri di autocompiacimento simbolico o a nascondere semplicisticamente le contraddizioni, le debolezze, gli opportunismi, che pur ci sono, nella politica occidentale. Ma non eviterà le bombe e forse le farà persino aumentare