L’abisso che si sta aprendo davanti all’Occidente è il frutto di una lettura sbagliata della globalizzazione, la quale, lungi dall’esser premessa di un nuovo cosmopolitismo, o addirittura – come qualcuno diceva – dell’unificazione dell’umanità, è diventata la condizione per una radicale frammentazione della struttura del mondo. Mentre l’Occidente è tutto unito nel non-linguaggio della rivoluzione digitale e informatica, nelle società omogenee o dispotiche tornano a vivere i linguaggi “storici”, che certo praticano la tecno-potenza globalizzata, ma riprendono la loro libertà, assai più carica di arbitrio di quanto non lo fosse prima.

Le previsioni degli ottimisti, che nella globalizzazione vedevano la fine dei confini, l’affermazione del circolo totale di mercati unificati, e quasi la premessa di una pace perpetua, cedono di schianto dinanzi alla forma frammentata che il mondo globale mostra di possedere dentro di sé, in un modo che sembra irrimediabile e profondo. Diviso e frammentato da che cosa? Oggi, dall’irrompere aspro di una dimensione geo-politica e di potenza che nasce proprio nelle società chiuse, come contro-faccia della pretesa unificante della rivoluzione tecnologica.
In quelle società, l’impianto geo-politico sorge in un modo elementare, dentro i linguaggi, i sentimenti e le culture che restano vive oltre il funzionamento della tecno-potenza, e proprio per questo riconquistano una loro autonomia più forte e selvaggia che mai. Tranquillizzato dall’unificazione tecnologica- intesa come neo-pacifismo potenziale- l’Occidente deve ritrovare le ragioni della propria identità, non assorbita da quella unificazione, né dalla sua dinamica.

Altrove, soprattutto nelle società che chiamo “omogenee”, ovvero parti di un mondo illiberale e dispotico in avanzata in ogni continente, la nuova potenza della tecnologia unificata agisce senza spegnere le ragioni materiali della loro identità, tenuta insieme fermamente da un sottostante sistema autoritario o addirittura totalitario. Nelle società aperte, i poteri sono ancora relativamente distinti, e la discussione pubblica (pur come si manifesta nei social) ancora si svolge in un clima di relativa libertà e distinzione. E i linguaggi “storici”, sostanzialmente dimenticati nell’esercizio della rivoluzione digitale, nel suo non-linguaggio, diventano sempre più neutri, non si accorgono, se non quando scoppiano le bombe, della durezza e chiusura di quelli originari delle società omogenee. Le quali stanno scoprendo la sempre maggiore debolezza delle società aperte, di quello che si chiama ancora “Occidente”, oggi pure diviso, salvo congiunture estreme. E diviso anche dagli effetti clamorosi e perversi di una globalizzazione che come tale produce curiose convinzioni, nel senso dell’ “abbiamo vinto”, l’ Occidente è stato l’espansione della tecnologia, il mondo è nostro pure se ci dividiamo, la “politica” appartiene al passato. Così avviene che le società dispotiche e autoritarie provano a conquistare o riconquistare aree del mondo con il linguaggio storico della potenza, parola dismessa in Occidente. Oggi Russia, domani di sicuro Cina, per non parlare di quello che è accaduto nel Mediterraneo in questi anni, Mare che ha escluso l’Europa, sotto i suoi occhi impotenti.

L’unificazione tecnologica delle finanze, e in larga misura dei mercati e del commercio (diventato mondiale), è una grande realtà che ne copre un’altra, e contiene perciò una grandissima illusione che l’Occidente ha vissuto acriticamente, per poi scoprire le contraddizioni pure al proprio interno, con il ritorno dei sovranismi e nazionalismi, oggi appena sopiti. La potenza torna, nella storia, nella sua nuda verità, nella nuda verità dei suoi linguaggi geo-politici tornati in campo con tutta la violenza possibile. Questo avviene, si diceva, ad opera delle potenze che chiamo “omogenee”, libere da ogni mescolamento di unità e frammentazione che gli stessi fenomeni producono nelle società aperte. Nelle quali, insieme alla potenza, è dimenticata pure la politica che deve essere anche potenza (Weber), pur se mitigata e governata dalla ragione democratica. Perché l’Europa come tale è il nulla? Perché ha disprezzato e demonizzato la potenza. Si può anche dire, a sua giustificazione, che la ha talmente utilizzata nella sua storia, da immaginare che privarsene fosse l’unica risposta possibile. L’irradiazione totale del linguaggio digitale, mentre altrove, nelle società chiuse preserva l’autonomia degli altri linguaggi, nelle società aperte è diventato il “dominus” che contribuisce anche alla omologazione-frammentazione di tutto. Con effetto-scomparsa della politica organizzata e del pensiero che la organizzava. Qualche fremito politico c’è ancora in America, e si capisce. L’Europa, da questo punto vista, è il puro nulla.

Se non avviene qualcosa capace di dar forza al linguaggio della politica, se non si affaccia un’altra idea della globalità del mondo, l’Occidente rischia, nel tempo, di perder la partita, ma neanche in un tempo tanto lungo. Cina, Russia, Medio-Oriente ormai quasi intero, altri fremiti altrove, stanno dando la loro rappresentazione del globalismo che tutto lascia pensare si intensificherà. Rileggere e aggiornare Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale di Oswald Spengler, 1918, per apprestare una risposta. Non si può combattere la globalizzazione come tale, nella sua forma tecnologica, che però non deve assorbire tutto come tecno-potenza. Bisogna saperla rileggere, provando a ridurre al minimo l’omologazione-frammentazione impolitica che produce nelle società democratiche e nel loro rapporto con il mondo. Altrimenti saranno guai, e molto brutto sarà il risveglio.