L’invasione dell’Ucraina. L’azzardo di Putin. Il Riformista ne discute con uno dei più autorevoli analisti italiani di politica estera: il professor Stefano Silvestri. Già presidente dello Iai (Istituto Affari Internazionali) e oggi consigliere scientifico, Silvestri è membro del Consiglio di amministrazione della Federazione aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza (Aiad) e della commissione Trilaterale, il think tank composto da poche centinaia di persone in tutto il mondo che puntano a promuovere la collaborazione fra i Paesi delle tre aree più influenti del pianeta (da qui Trilaterale): Europa, Giappone e Nord America.

È guerra in Ucraina. Putin ha lanciato l’invasione e ha ingiunto: “Deponete le armi” e ammonito: “Conseguenze mai viste per chi interferisce”. Professor Silvestri, a che cosa siamo arrivati?
Siamo arrivati al fatto che Putin ha deciso di riprendersi l’Ucraina. Dopo trent’anni ha deciso che basta, che era una minaccia eccessiva, più la Nato o altro, alla sicurezza del suo regime. L’ha vista come una minaccia al regime, nel senso che aveva un Paese russofono sostanzialmente o comunque largamente connesso con la Russia, che aveva un regime diverso dal suo, praticamente alle porte di casa. Non solo, ma che lo sfidava, dicendo che voleva andare ancora più a Occidente. Che poi la Nato l’accettasse o meno, che poi l’Unione Europea la facesse entrare o meno, a lui a questo punto non interessava più. Nel senso che non aveva comunque una cosa sotto il suo controllo, che era diventata una specie di spina nel fianco che significava che potesse esserci un’alternativa efficace al regime di Putin. Io credo che questa sia una guerra di regime piuttosto che di territori o altro. E poi c’è anche un elemento di riscrittura della Storia: siamo stati umiliati, l’umiliazione degli slavi, e quindi dobbiamo riprenderci il nostro onore e la nostra storia. E quindi io farò come Pietro il Grande, vado a rivincermi la campagna di Poltava e mi prendo l’Ucraina…

Detto da uno, Putin per l’appunto, che ha affermato che il disastro più grande del XX secolo è stato la fine dell’Unione Sovietica…
Ma il riferimento non è neanche più tanto l’Unione Sovietica. È la Russia. Anche quella degli zar. È più nazionalista che comunista. Del comunismo a Putin non gliene frega niente. Anzi, lui critica Lenin e Stalin per la politica di nazionalità che hanno fatto, che era uno dei fondamenti del sistema dei Soviet. È un nazionalista che a me ricorda lo zar Alessandro I, quello del Congresso di Vienna, che voleva un sistema internazionale per tenere sotto controllo quegli infidi dei liberali, dei nazionalisti, dei democratici, che poi erano fondamentalmente, lo si era visto con Napoleone, degli imperialisti nei confronti dei vecchi regimi. Quello che Putin vorrebbe, è un nuovo Congresso di Vienna. Noi mettiamo in ballo l’Osce. No, lui non vuole l’Osce, vuole un Congresso di Vienna 2.0. Non vuole Helsinki, vuole Vienna. Un’aspirazione che metterebbe fine all’indipendenza che era stata garantita alle repubbliche ex-sovietiche, dopo la dissoluzione dell’Unione. Non è tanto il risultato finale a preoccupare (anche perché sarebbe comunque lontano nel tempo) quanto, molto più prosaicamente, le iniziative intermedie, tattiche o settoriali, che il Cremlino può decidere di attivare. Dopotutto truppe russe sono presenti in territori che erano un tempo considerati parte della Georgia, in Ucraina, nel Nagorno-Karabakh (tra azeri e armeni), in Kazakhstan, in Bielorussia, ecc. Un loro aumento di visibilità potrebbe facilmente moltiplicare i punti di crisi causando reazioni a loro volta potenzialmente destabilizzanti.

Dal punto di vista strettamente militare, che previsioni si possono fare?
È difficile dire. Bisogna vedere quanto combatteranno effettivamente gli ucraini. Cosa su cui non sappiamo nulla. Io non credo che possano vincere lo scontro, perché, bene o male, la Russia ha un esercito abbastanza moderno, molto bene addestrato e più armato di quanto non lo siano gli ucraini, specialmente in campo aeronavale. E il dominio dell’aria è fondamentale in questi casi. Sul piano terrestre la cosa potrebbe essere più contrastata, ma se c’è un dominio dell’area, credo che gli ucraini non avranno molte possibilità di bloccare l’offensiva. Bisogna vedere quanto ci proveranno. Il che poi darà anche una idea delle perdite. Ho letto che Putin ha dichiarato la mobilitazione, il che può voler dire che metta in conto la possibilità di usare molte più truppe di quante ne ha mobilitate finora. Soprattutto se vuole occupare il Paese. Per farlo gli servono forze ingenti. Va bene che l’Ucraina non è l’Afghanistan, è una grande pianura, quindi è più facile, comunque non si tratterà di una passeggiata. È possibile che Putin, dopo la tempesta Trump, il brutto ritiro americano dall’Afghanistan e i relativi successi raccolti in Siria e nel Mediterraneo, abbia ritenuto che fosse giunto il momento di tentare un affondo per riconquistare, almeno in parte, la sua tradizionale sfera di influenza. Forse ritiene anche che la confusa situazione politica interna americana, la crescente preoccupazione di Washington nei confronti della Cina e la perdurante dipendenza europea dalle importazioni di gas dalla Russia, siano fattori da sfruttare subito, prima che la situazione possa cambiare. Da qui l’accelerazione militare.

E questo può avvenire con un’America, quella di Biden, che si limita a guardare o a prospettare solo ulteriori sanzioni?
Fino a un certo punto, direi di sì. Nel senso che l’America in questo momento è chiaramente spaccata, come lo era prima della Seconda guerra mondiale. Basta leggere le dichiarazioni di Trump, che sono equivalenti alle dichiarazioni di quei senatori e politici americani che prima della Seconda guerra mondiale non volevano intervenire in Europa perché la cosa non li riguardava. E questo è ciò che sostanzialmente dice oggi Trump. Biden fortunatamente non ha preso questa posizione. Resta il fatto che intervenire a difesa dell’Ucraina significherebbe andare in guerra con la Russia, aprendo scenari più che inquietanti. Si possono fare degli appoggi indiretti, però è chiaro che è difficile immaginare qualcosa di più. Io avevo ipotizzato un interesse dell’Europa, per esempio, ad assicurare la sopravvivenza della parte occidentale dell’Ucraina, per evitare il grande afflusso di profughi in Europa. Però questo significherebbe un intervento sul terreno. L’Europa non lo può fare senza l’America. E francamente io non credo che l’America abbia la forza politica di prendere un rischio di questo livello in questo momento, con la divisione interna a cui accennavo in precedenza. A meno che poi Putin non attacchi un Paese della Nato. In questo caso, cambierebbe tutto. Una situazione pericolosa dunque, che nessuno ha in realtà interesse a protrarre indefinitamente, ma che nessuno sembra ancora disposto a disinnescare, in primo luogo al Cremlino. Ciò dovrebbe preoccupare soprattutto noi europei, più esposti alle possibili conseguenze di un peggioramento come quello in atto.

Allo stato delle cose, si può definire quello di Putin un azzardo?
Direi di sì, e da due punti di vista. sicuramente un azzardo economico. E nel lungo termine questa è una cosa che va a costare alla Russia un prezzo incredibile. Con la Crimea siamo stati un po’ fessi, diciamo così, a non mettere Putin nell’angolo. Era una cosa più ambigua, ma certo è che è stata colpevolmente sottovalutata la volontà di Putin di continuare su questo piano. Adesso inevitabilmente dovremo trovare la maniera di affrancarci dalla Russia, quindi anche di non comprare più il suo gas. Sarà una cosa che richiederà qualche anno. Nel frattempo la Russia potrà naturalmente vendere il suo gas ai cinesi. Però questo significherebbe che la Russia diviene sempre più un Paese asiatico. E in questo gioco, è anche il Paese numero due rispetto alla Cina. Una cosa è essere il numero due rispetto agli Stati Uniti o all’Europa, altra cosa è esserlo rispetto alla Cina. Non so quanto questo farà piacere alla fine ai russi.

Abbiamo evocato la storia, gli zar, il Congresso di Vienna, Lenin, Stalin, la fine dell’Unione Sovietica. Il futuro è un eterno, e tragico, ritorno al passato?
A suo modo, sì. In questo senso la rottura della globalizzazione. La crisi della globalizzazione che abbiamo avuto, in gran parte per errori nostri, ha dimostrato che non c’era un governo della sicurezza. E questo ha permesso alle potenze nazionaliste, di cui la Russia è la più importante per oggi, ma poi c’è la Cina, la Turchia, l’Iran, l’Arabia Saudita etc.., di pensare di poter realizzare le proprie ambizioni, addirittura territoriali oltre che di sicurezza. Questo ha riaperto quello che volevamo chiudere con le Nazioni Unite, e cioè il cambiamento delle frontiere con la forza. All’interno della globalizzazione, questo ha un impatto ancora più forte di quello che ebbe durante il periodo delle due guerre mondiali. Perché gli effetti di queste rotture del sistema, si sentiranno molto di più. E su più piani: su quello economico, su quello sociale e anche culturalmente. Immaginiamo un mondo globalizzato in cui rimettiamo in auge le barriere, le cortine di ferro… Questo significherebbe rimettere in gioco tutte le catene di produzione. Rimettere in gioco il mondo della libera circolazione delle persone, dell’informazione, dei beni, dei capitali. La globalizzazione di internet. È una situazione paradossale, perché noi abbiamo un mondo tecnologicamente unificato che rischia adesso di dover essere frammentato politicamente. È una situazione davvero molto ma molto delicata. Rischia di essere una guerra tra passato e futuro.

 

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.