Dopo quasi due settimane di guerra ci stiamo ormai abituando a essere spettatori muti. In attesa di qualche notizia che ci regali un po’ di speranza. In verità sono ormai anni che siamo spettatori muti di eventi straordinari e senza che ve ne fosse memoria collettiva. Prima il Covid, che ha restituito alla morte, relegata fino ad allora tra le faccende private, la sua dimensione pubblica. Adesso la guerra, che, per la generazione degli adulti e dei giovani di oggi, era stata sinora sempre vissuta come un fatto lontano. Una lontananza geografica tale da farla apparire cosa di “altri mondi”. Realisticamente le buone notizie non arriveranno presto, mentre quelle che potrebbero arrivare sarebbero le più drammatiche. Chiaramente non è ancora il tempo della fine delle ostilità, figuriamoci della pace.

Ci dobbiamo dunque attaccare alla speranza, anzi a due speranze. Le speranze che sono concesse a chi è schiacciato nella realtà più cruda, in cui campeggia la tragedia e la normalità è solo una nostalgia sempre più mesta. La prima speranza è che l’assenza di buone notizie nasconda l’operare febbrile delle iniziative diplomatiche vere, quelle che non si possono conoscere finché non producono frutti. È una speranza ragionevole per più di un motivo. Innanzitutto per l’evidente e anche, per certi versi, sorprendente protagonismo di alcuni attori. Chi avrebbe mai pensato all’iniziativa di un premier israeliano fuori dalla cornice dei conflitti mediorientali? O al successo, almeno simbolico, di un premier turco capace di ottenere la disponibilità ad un incontro, al più alto livello, tra i ministri degli esteri dei paesi in guerra ? Chi infine avrebbe mai potuto credere che, come ricordava lo storico Arne Westad in un seminario all’università di Yale, di qualche giorno fa, questa è una situazione in cui “la Cina ha più capacità di influenza degli Stati Uniti”? Ma è anche una speranza ragionevole perché le alternative non sono nemmeno pensabili. Anche escludendo lo scenario apocalittico, l’instabilità indotta da un conflitto che divenisse endemico o che premiasse l’aggressore non sarebbe sostenibile né dalla comunità internazionale, né dai suoi stessi alleati, a cominciare dalla Cina, perché le ripercussioni sugli equilibri economici e geopolitici sarebbero devastanti.

La seconda speranza è nella tempestività degli eventi. Tempestività intesa nel senso che accadano al momento giusto. Né troppo presto, perché, a meno di immaginare un improvviso cambio di regime in Russia, escluso da tutti (come notava ieri sul Financial Times Gideon Rachman), l’unico evento che potrebbe determinarsi presto è la resa dell’Ucraina o l’escalation nucleare, cioè la resa del mondo. Per quanto doloroso, il protrarsi del conflitto, indebolisce la Russia più degli altri, sul piano militare, su quello economico e sul quello del consenso interno. Ma il tempo gioca anche a sfavore dell’Occidente. L’impennata dei prezzi del gas e del petrolio alla sola notizia dell’ipotesi di mettere al bando le importazioni dalla Russia, la possibilità che l’Unione europea alleggerisca ulteriormente le norme sugli aiuti di stato per consentire ai paesi membri di sostenere la crisi in cui potrebbero sempre più avvitarsi le imprese, sono solo due indicatori del fatto che la situazione non sarà a lungo sostenibile nemmeno per noi e che il “generale inverno” tra alcuni mesi, potrebbe schierarsi dalla parte di coloro che adesso sono gli aggressori.

Puntare a ridurre la dipendenza dal gas russo, come ha dichiarato il presidente Draghi esprime accanto alla determinazione dello sforzo, anche l’amara consapevolezza che quella dipendenza ancora esiste. Dobbiamo dunque sperare che i tempi per le soluzioni maturino, accettando anche che queste non saranno nella sfera dell’ottimo, ma nella sfera del possibile. Sperando che non sia così male. Dopodiché bisognerà prendere atto di almeno tre trasformazioni epocali. La prima è che si è chiusa la lunga fase post-guerra fredda e l’ordine mondiale dovrà riassestarsi su un equilibrio oscillante tra deterrenza, Realpolitik e cooperazione tra potenze medie e grandi che non condividono gli stessi modelli di società e gli stessi valori e, che, verosimilmente continueranno a non condividerli per molto tempo. Una sorta di guerra fredda 2.0.
La seconda è che la globalizzazione non sarà più come l’abbiamo conosciuta.

Perché sarà un po’ più orientata verso una sorta di autarchia per aree geopolitiche, soprattutto con riferimento alle risorse energetiche e ai beni vitali per le società complesse. Ma anche l’Unione europea non sarà più la stessa. È difficile dire se riuscirà ad essere qualcos’altro e come avverrà la riorganizzazione degli interessi. Ma è impossibile che si torni a dove eravamo solo tre anni fa. Ho parlato di tre trasformazioni epocali, perché la quarta, che cioè l’Italia riesca a trasformarsi profondamente uscendo dalla sua specifica e pluridecennale crisi, così da avere un ruolo significativo anche su come verrà ridefinita la storia europea, e non solo, dei prossimi decenni, è una scommessa perfino ancora più azzardata.