La guerra Russia-Ucraina
Come può finire la guerra in Ucraina, gli scenari e il ruolo dell’Europa
La guerra sembra aver bruscamente sospeso il tempo della politica come narrazione ingannevole (affidata non a caso un po’ ovunque a comici, miliardari, dilettanti) e restituito d’un colpo il più crudo principio di realtà che evoca il ritorno della responsabilità della decisione sulla vita e la morte dinanzi alla maschera del nemico.
La sensazione che le pratiche belliche diffondono è quella di uno scarto abissale tra la fuga nella comunicazione e il momento tragico del politico di cui ha già parlato Machiavelli. A conclusione del suo libro Dell’arte della guerra egli descriveva in termini sprezzanti la qualità non eccelsa delle classi dirigenti che difettavano di ogni senso della storicità costruttiva della funzione pubblica.
“Credevano i nostri principi italiani, prima ch’egli assaggiassero i colpi delle oltramontane guerre, che a uno principe bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare nè detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d’oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascive intorno, governarsi co’ sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nello ozio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse loro dimostro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fossero responsi di oracoli; né si accorgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava”. Prima del risveglio improvviso sotto l’eco delle bombe che cadono su Kiev, i politici italiani credevano che la loro professione consistesse nel godere di qualche simbologia del potere, in un flusso di tweet, in una dichiarazione sbrigativa alle agenzie, in una battuta affidata alla “bestia” della comunicazione, in una memorialistica edificante sulle fantastiche avventure di una madre e cristiana. Qualcuno pensava anche di poter lucrare delle gentili attenzioni di potenze straniere interessate alle spinte sovraniste e populiste come leva preziosa per indebolire le democrazie europee più inquiete.
I carri armati costringono a recuperare un tema originario della politica occidentale, la sicurezza, la forza necessaria per la conservazione della statualità. In un mondo che si interrogava (in verità sempre meno) sul disarmo e sulle tappe per il consolidamento del diritto internazionale ispirato alla pace, a seguito delle strategie aggressive di Putin tocca raccogliere le preoccupazioni della politica classica. Che era obbligata, come suggeriva Machiavelli, a mostrarsi “vigilante a osservare i disegni del nemico”.
Le suggestioni kantiane (superamento degli eserciti permanenti, affidamento dei residui compiti coercitivi all’ordinamento internazionale, l’unico abilitato alla somministrazione delle sanzioni) vengono relegate sul piano dell’irenismo e lasciano il posto alle categorie più realistiche coltivate dal pensiero politico classico.
L’effetto immediato della “operazione” di Putin è proprio la riabilitazione della ipotesi fondativa di Machiavelli riferita a qualsiasi rapporto politico: “ogni città, ogni stato debba reputare nemici tutti coloro che possono sperare di poterne occupare el suo, e da chi lei non si può difendere”. L’ipotesi (non l’effettualità dell’inimicizia) serviva al segretario fiorentino per ritagliare lo spazio essenziale della politica come progetto che costruisce ordine, vita civile.
La violazione della sovranità territoriale dell’Ucraina e l’esibizione della potenza del carro armato autorizzano domande inquietanti sulla capacità di difesa delle democrazie (nella consapevolezza, come diceva Machiavelli, che ad una potenza “l’una victoria dà sete dell’altra”). L’ordine internazionale sorto dopo il collasso sovietico è oggi ritenuto obiettivamente superato da alcuni attori che spingono con le armi per una sua ridefinizione in grado di restituire visibilità a potenze umiliate. C’è stato dopo gli anni ’90 uno scontro prolungato che, nel lessico di Machiavelli, può essere reso come frizione tra Stati che procedono con logiche espansive (“l’ordinarsi per acquistare”) e Stati che assumono il canone della conservazione (“l’ordinarsi per mantenere”). L’occupazione dell’Ucraina segna il compimento della lotta tra ampliamento generalizzato della Nato sino ai confini del decaduto impero del male, blocco delle transizioni democratiche nello spazio post-sovietico con suggestioni autoritarie e interferenza virale persino nelle elezioni americane.
Con l’aggressione militare a Kiev, e con i costi economici, simbolici e umani sopportati, la Russia ha inteso provocare lo stato di eccezione per sfidare l’ordine mondiale diseguale che la relegava al ruolo marginale della potenza sconfitta dalla storia. La guerra di movimento si è rivelata però più complessa e lunga di quanto la strategia di sfondamento celere prevedesse. La Russia ha trascurato l’impatto del principio fortemente mobilitante che conferisce all’Ucraina come paese aggredito “il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva” sancito dalla Carta dell’Onu. Sprovvista, a differenza dei carri armati sovietici di una volta, di ogni supplemento ideologico che attenua la logica della dura conquista, l’operazione di Putin è apparsa come una semplice volontà di dominio sprigionata da una potenza autocratica incapace di qualsiasi consenso (e si sa: “chi acquista imperio e non forze insieme conviene che rovini”). Pare comunque poco probabile che la Russia proceda nell’immediato con ulteriori espansioni territoriali in altri spazi orientali. La ragione di questa riluttanza ad intraprendere una guerra permanente la spiegava al solito Machiavelli: “fare guerra sempre non è possibile”, i costi sono troppo salati e “pagargli sempre non si può”.
Le risorse accantonate per condurre la guerra in Ucraina con una certa autonomia finanziaria non bastano per sopportare una guerra infinita. Gli effetti delle reazioni consigliano peraltro grande prudenza. Più ragionevole sembra aspettare che dopo la prova delle armi, i costi economici delle sanzioni, l’isolamento per la violazione del diritto internazionale, la Russia sia spinta ad invocare la politica. E quindi ad utilizzare proprio l’emergenza dichiarata con i tempi della guerra come una occasione per negoziare la sospensione delle ostilità e così consolidare i cardini di uno spazio multipolare. In tal senso la parola torna alla politica, necessaria per ratificare i rapporti di forza infranti e disegnare su diverse basi la nuova cornice delle relazioni internazionali. La guerra è anch’essa un processo e la politica ne deve controllare i tempi, le fasi, gli ordini. Per questo agli attori, avvertiva Machiavelli, “sapere nella guerra conoscere l’occasione e pigliarla, giova più che niuna altra cosa”. Per chi adopera la logica della potenza l’occasione dopo la prova del fuoco è quella di contrattare ruoli e influenza. Per gli attori e le opinioni pubbliche il governo che segue l’occasione bellica si presenta come momento per l’ideazione di un laboratorio istituzionale utile per la sostenibilità degli obiettivi di pace e disarmo.
L’ideale kantiano di un ordine mondiale di pace con Stati retti secondo un ordinamento interno di tipo repubblicano rimane sullo sfondo come un grande principio organizzativo. Però nessun valore etico-politico conferito alle superiori procedure liberaldemocratiche dell’occidente può cancellare la realtà di un mondo complesso che si presenta con molteplici tipologie di organizzazione del potere, talune anche illiberali e che richiedono di partecipare alla governance internazionale. La Russia che ha affidato alla potenza geometrica delle armi (“la voglia e la necessità dello acquistare”, diceva Machiavelli) la sua volontà di tornare a partecipare ai giochi della grande politica, la Cina che da espansiva potenza economica reclama ruoli politici globali ed è stata evocata anche nelle funzioni inedite di mediatore nel conflitto armato, richiedono all’America la riconfigurazione dell’ordine mondiale in un senso più apertamente multipolare. Il sentimento dell’infinitamente piccolo che attraversa un occidente liberale che, oltre al cappio di autocrazie e fondamentalismi, avverte un suo ridimensionamento anche demografico dovrebbe essere corretto secondo una indicazione del sociologo Talcott Parsons.
Rivendicando “certi significati universali e fondamentali della cultura occidentale” il sociologo americano ricordava che “il comunismo è un prodotto della civiltà occidentale; dopotutto Carlo Marx era un ebreo tedesco che passò gran parte della sua vita in Inghilterra”. Anche chi non crede alla genealogia di Parsons, per cui “il comunismo ha profonde radici nella tradizione liberale”, farebbe bene a muoversi con accortezza e, nella competizione economica con la Cina, a non trascurare la chiave di accesso ad un dialogo multiculturale che proprio il linguaggio del socialismo consente di impostare. Lo scenario di un mondo fuori controllo con pressioni e conflitti cambia le forme strutturali della politica e richiede duttilità, non scontro di civiltà ma capacità di dialogo grazie alla traducibilità dei linguaggi politici che riconducono ad una genealogia europea.
La domanda minimale di ordine e sicurezza, prima affidata agli Stati nazionali come enti che monopolizzavano la violenza legittima, ora può essere soddisfatta solo se rivolta all’Europa. Da spazio di mercato, le circostanze belliche accelerano il percorso per la sua integrazione efficace come territorio della difesa comune. Dopo la moneta viene evocato da più parti l’esercito e quindi dalla mera concorrenza l’ottica si sposta a quella della condivisa potenza. La “malignità della guerra” non chiude, come indicava Machiavelli, lo spazio della politica inteso come governo della possibilità che si spalanca nel mutare dei rapporti di forza.
© Riproduzione riservata