Una domanda
Il post di Cecilia Sala, la fabbrica del falso e la morte del giornalismo
L’altra sera Cecilia Sala, collega piuttosto seguita in rete, ha postato su Twitter/X una “fotografia” attribuita a una “reporter” morta nell’attacco all’ospedale di Gaza. L’immagine espone il dolore di una famiglia intorno a un cadavere, in un contesto drammatico e straziante: una sorta di affresco caravaggesco che mostra un corpo disteso, avvolto in un sudario bianco, circondato da alcune figure che lo vegliano.
I volti sono rigidi, come congelati, senza le imperfezioni tipiche di uno scatto reale. I tessuti degli abiti presentano pieghe innaturali, ripetute come un motivo grafico più che come un vero drappeggio. Le espressioni sono impersonali, prive di quella varietà di dettagli che la sofferenza imprime nei lineamenti reali. Lo sfondo è indistinto, piatto, non ha niente del disordine che accompagna un’autentica scena ospedaliera o familiare. A un primo sguardo l’immagine può commuovere, ma a un occhio appena più attento rivela subito la sua natura: non è un documento fotografico, ma un prodotto dell’intelligenza artificiale, fabbricato per suggestionare. Non è lo scatto di una “reporter”, ma un volantino di propaganda.
Ora, lungi da me imbastire un processo morale alla povera autrice del “prodotto”, morta in una zona di guerra. Ma una domanda mi viene da porla a Cecilia Sala (potrei porla a tanti, ma tanti colleghi). Se un giornalista non si accorge che un’immagine è un falso e la rilancia, c’è un problema, e serio. Per chi fa informazione, distinguere un documento vero da un falso non è un optional. È come saper scrivere un pezzo in italiano corretto, usare la punteggiatura in modo sensato, citare le fonti in maniera precisa. È l’alfabeto minimo del giornalismo. Oggi, nell’era digitale, quell’alfabeto comprende anche la capacità di verificare le immagini e i video che circolano in rete. Si chiama forensica digitale la disciplina che serve ad analizzare i file – fotografie, video, documenti, audio – per capire se sono autentici o manipolati. Non è materia per tecnici di laboratorio: è la cassetta degli attrezzi del giornalismo moderno. Vuol dire applicare alcune verifiche minime, quasi automatiche: controllare la provenienza dell’immagine, capire se esiste una chiara catena di custodia (“chi l’ha scattata, quando, come è arrivata a me”), leggere i metadati, fare una ricerca inversa per vedere se la foto è già apparsa altrove in altro contesto, osservare se luci e ombre tornano, se i dettagli collaterali sono coerenti (una scritta su un cartello, il modello di un’automobile, la divisa di un soldato). Questa è la rapidissima checklist che dovrebbe scattare nella testa di ogni giornalista. Non richiede ore, richiede professionalità.
Di qui il problema: se un giornalista non riconosce questi indizi, vuol dire che manca un pezzo della sua formazione di base. Se poi invece li riconosce e sceglie comunque di rilanciare l’immagine, vuol dire che ha deciso di mettere il mestiere al servizio della propaganda e di appendere al chiodo ogni forma di deontologia professionale. Ma, anche qui, non pongo una questione morale: chiedo concretamente se questo modo di informare serve a rafforzare la causa che si è scelto di abbracciare. Nel caso di questa foto, come per centinaia di altri falsi, secondo me la causa viene indebolita, non rafforzata. La propaganda becera serve a colpire al momento cuore e pancia delle persone, ma alimenta a dismisura la sfiducia di chi il trucco lo riconosce. Magari la maggioranza del pubblico non distingue, ma una minoranza crescente sì. E quella minoranza si rafforza nella convinzione che sia in atto un’operazione sistematica di manipolazione. In questo modo, il falso non consolida il racconto dominante: lo logora dall’interno. Non distrugge solo la credibilità di chi lo diffonde, ma sporca anche le testimonianze autentiche, i dolori veri, le storie reali. Alla fine tutto diventa indistinto, tutto è sospetto, tutto è manipolabile.
Hamas sa bene come funziona questo meccanismo. Per questo da anni ha investito sulla guerra delle emozioni: numeri mai verificati, immagini di repertorio spacciate per nuove, video montati ad arte. E ora con l’intelligenza artificiale ha un arsenale ancora più potente a disposizione. Ma i giornalisti veri non dovrebbero mai cadere nella trappola delle emozioni che tolgono spazio e dignità alle verifiche. Rassegnarsi alla manipolazione dei fatti significa decretare la morte definitiva del giornalismo. Ci pensi bene Cecilia Sala, che è giovane e ha davanti a sé una lunga vita professionale.
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