Sei minuti sono bastati a un procuratore generale di nome Massimo Gaballo per allinearsi ai colleghi di primo grado e chiedere di mandare a processo il Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, già prosciolto da un gup “perché il fatto non sussiste”. “Il pg non ha fatto altro che richiamarsi ai motivi di appello del pm. Eppure un magistrato dovrebbe sapere quando un processo è chiuso”, commenta uno sconcertato Jacopo Pensa, legale del Presidente.
Lo stupore è dovuto al fatto che le archiviazioni in udienza preliminare sono rare, quando ci sono vuol proprio dire che un processo non finirebbe mai con la condanna. Ma ancor più rari in quel caso sono i ricorsi in appello del pm. Pure a Attilio Fontana sono capitate tutte e due le singolari situazioni. Sottoposto per due anni a gogna mediatica per il reato di “frode in pubblica fornitura” per una donazione di 50.000 camici alla Regione da parte della società Dama di proprietà del cognato Andrea Dini, aveva poi visto svanire come neve al sole l’accusa dopo che la giudice Chiara Valori aveva dichiarato il proscioglimento “perché il fatto non sussiste”. Del resto gli stessi uomini della Procura, con l’aggiunto Romanelli e i sostituti Scalas e Filippini, prima ancora della decisione della gup, parevano orientati a chiedere il proscioglimento di tutti gli indagati, Fontana, Dini e tre dirigenti regionali, Filippo Bongiovanni, Carmen Schweigi e Pier Attilio Superti. Tanto era singolare la vicenda.
Ricordiamola sinteticamente. La cornice era quella tragica del 2020, con lo sconosciuto e maledetto virus arrivato nelle nostre case e la fame disperata di ospedali e privati cittadini di ogni presidio sanitario, mascherine e camici in particolare. L’azienda Dama, come altre riconvertite all’uopo in quel periodo, fa la propria offerta alla Regione Lombardia per 75.000 camici al prezzo di 513.000 euro. La trattativa è regolare, dal momento che il Governo, vista la situazione di emergenza, ha sollevato le Regioni dall’obbligo di indire gare. Ma l’odore del sangue, si sa, è una tentazione troppo forte tra coloro che scambiano la voluttà della gogna per giornalismo d’inchiesta. Così tra un’intervista ai citofoni e uno strillo degli “onesti” che si spingono fino a presentare una mozione di sfiducia nei confronti del Presidente della Regione Lombardia, nasce il reato di “frode in donazione”, perché a un certo punto Andrea Dini decide di fare omaggio alla Regione di 50.000 camici.
Probabilmente, se fosse stato il cognato di un Presidente meno rigoroso, si sarebbe limitato a rivendicare il diritto di essere considerato come un qualunque fornitore e di non essere penalizzato in quanto parente. Ma c’erano anche le interviste ai citofoni e le sbirciate dal buco della serratura, a montare il caso. Quale è dunque il succo del processo? Una generosità incompleta, un po’ di tirchieria, insomma. Perché sono stati donati alla Regione 50.000 camici e non 75.000? Che importa del fatto che la Lombardia non abbia avuto danni ma se mai solo un vantaggio? E quali sarebbero gli “interessi privati convergenti degli imputati”? Lo sapremo forse il 23 giugno con la decisione della corte d’appello.
