La risposta
Recite di Natale, tutto è performance. Broadway può attendere, l’educazione decisamente no
Gentile Il Riformista,
Leggendo sui social un articolo pubblicato dal vostro giornale, apprendo con un certo stupore che tra i criteri di valutazione dell’educazione scolastica dovremmo forse includere anche l’impatto sul PIL e il livello di gradimento dei genitori seduti in platea. L’articolo utilizza una provocazione brillante, ma profondamente miope. La drammatizzazione a scuola non nasce per intrattenere gli adulti né per imitare Broadway, bensì per offrire ai bambini uno spazio di espressione, cooperazione, gestione delle emozioni, esposizione al pubblico e costruzione dell’autostima. Che i bambini non siano “come professionisti” è un’ottima notizia: significa che sono bambini, con la loro spontaneità. Ed è proprio per questo che il valore educativo risiede nel processo, non nella performance finale. Ridurre tutto a una perdita di PIL o al fastidio organizzativo degli adulti equivale ad applicare una logica adulta e produttivistica a un contesto che ha tutt’altra funzione.
In oltre trentaquattro anni di lavoro educativo ho visto bambini timidi trovare voce, gruppi imparare a collaborare e famiglie scoprire lati nuovi dei propri figli grazie a piccole recite di mezz’ora. Questo non è tempo sprecato: è investimento educativo. È vero, molti genitori seguono con attenzione solo il minuto e mezzo del “proprio” figlio. Ma forse il problema educativo da indagare non sono i bambini sul palco, bensì gli adulti in platea. La drammatizzazione, con i suoi 30 o 50 minuti imperfetti, genera spesso più crescita emotiva di ore o giorni di lezioni definite “produttive”. Broadway può attendere. L’educazione, decisamente no.
Cordialmente Lina Furfaro,
una maestra che crede ancora nell’educazione e che utilizza metodi e strategie diverse per l’inclusione, per raggiungere risultati con tutti gli alunni e tirar fuori il meglio da ciascuno.
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Gentile Maestra Furfaro,
Dal giorno in cui ho postato il mio articolo, ho ricevuto circa 700 messaggi, sui social o in privato. Una buona metà sono offese che mi descrivono come arido, insensibile e — restando in tema scatologico, probabilmente invitati dal titolo stesso — assai peggio. L’altra metà sono persone che hanno trovato divertente e fondato il messaggio profondo: non ce la facciamo più con queste recite! Un movimento sotterraneo di genitori esasperati che sta cercando di esprimere la sua posizione. Ma il suo messaggio è diverso. È una lezione, per contenuti e stile. La mia era una provocazione. Provocare è il mio mestiere. Essere rimesso in riga, evidentemente, è il mio destino. Leggo la sua email e la immagino come una nota sul registro. Di quelle che i genitori devono controfirmare. E infatti eccomi qui.
“Il giornalista Andrea Laudadio, classe V sezione C (ripetente), in data odierna ha dimostrato: scarsa capacità di attenzione durante le recite scolastiche; insofferenza verso attività che richiedono pazienza; tendenza a generalizzare esperienze personali; uso improprio del PIL in contesti educativi. Si richiede colloquio con la famiglia”. Controfirmo. Anzi, dovrebbero controfirmare i miei figli, Alice e Francesco. Ma non mi rivolgono la parola da quando hanno letto l’articolo. Scherzo: in realtà mi conoscono bene e sanno che quello che dico è spesso un’iperbole di quello che penso, dove la verità va trovata tra le righe e — comunque, sempre — rispettata. Quindi firmo io, in loro vece, sperando che prima o poi mi perdonino.
Non ci conosciamo. Probabilmente ha letto solo questo mio articolo. Capisco lo stupore. Ma mi creda: nella mia vita professionale e intellettuale faccio esattamente l’opposto di quello che sembra. Mi occupo di formazione in una grande azienda. Nel mio podcast — “Ti Do La Mia Parola” — che la invito, se vorrà, ad ascoltare, da trenta episodi critico senza pietà: il produttivismo, la meritocrazia tossica, l’efficientismo, tutto quello che di matrice americana ha trasformato il lavoro in una religione e le persone in “risorse umane”. Scrivo contro la performance a tutti i costi. Contro i KPI applicati agli esseri umani. Contro l’idea che il valore di una persona si misuri in output. Si figuri se accosterei, seriamente, il PIL alla cosa più importante che ho: i miei due figli. E allora perché ho scritto quel pezzo? Perché il PIL era una provocazione. Un’iperbole. Un modo per attirare l’attenzione su qualcosa che vedo accadere ogni anno, tre volte l’anno, nella scuola dei miei figli. Alice e Francesco frequentano l’Istituto Smaldone di Roma, a Centocelle. Scuola cattolica, comunità affettuosa. Tre recite all’anno: Natale, Pasqua, fine anno. Uno sforzo sovrumano per un genitore che lavora. Le assicuro: chiedere quattro ore di permesso, attraversare Roma, sedersi in nona fila non è banale.
Vorrei solo che mio figlio si impegnasse almeno la metà di quanto mi impegno io per essere lì. Varrebbe anche per mia figlia, ma mi ha diffidato: se scrivo ancora di lei, mi porta in tribunale. Ma il cuore della mia critica non erano i bambini. Erano gli adulti. Tutti noi. Svogliati i bambini, svogliati i genitori, svogliato il sistema. A restare motivati, ormai, ci sono solo gli insegnanti. L’ultima colonna. L’estrema colonna che tiene su tutto. Voi. Lei. Il mio pezzo voleva dire questo: in un mondo dove tutto è diventato performance, dove anche i bambini di sei anni devono “essere bravi”, dove i genitori filmano invece di guardare, dove i nonni ricevono video che non vedranno mai — in questo mondo le recite scolastiche sono diventate un rituale svuotato. Non per colpa dei bambini. Non per colpa degli insegnanti. Per colpa nostra. Di noi adulti in platea. Di me, in nona fila, che guardo l’orologio. Lei scrive che in trentaquattro anni ha visto bambini timidi trovare voce. Le credo. Questo è il valore delle recite. Dopotutto, a giudicare dalla sua garbata, cortese e gentile email, non c’è che da pensare che la sua maestra, quando lei era piccola, le abbia insegnato tanto. Forse anche attraverso le recite.
Grazie per la sua lettera. Grazie per la sua attenzione. Trentaquattro anni a tirare fuori il meglio dai bambini. A credere nel processo più che nella performance. A tenere su quella colonna mentre noi adulti ci distraiamo. Però mi lasci l’ironia. Io ho dato voce a un piccolo malessere che provano tutti coloro che — come me — vivono come un obbligo fastidioso dover andare a vedere le recite dei propri figli. L’errore, se me lo permette, è pensare che quello sia tempo “di qualità” quando invece, spesso, non lo è. Io le lascio tutta la profondità del suo messaggio. Lei mi lasci affrontare con ironia il piccolo calvario delle recite natalizie.
Cordialmente, con simpatia e affetto.
Andrea Laudadio
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