Se il prossimo Parlamento e la maggioranza che governerà il Paese dopo le elezioni pensano a una riforma costituzionale, specie se radicale come l’introduzione del presidenzialismo, facciano attenzione al partito dei pubblici ministeri. Non tanto se pensano di ricorrere a un’assemblea costituente, come ha proposto l’ex pm Carlo Nordio e come ha sempre e invano sollecitato nel passato il presidente Francesco Cossiga. Ma se hanno in mente una Commissione Bicamerale.
Perché in questo caso bisognerebbe non aver più paura dei pubblici ministeri, e per la politica non è facile, neppure nel momento in cui il gradimento dei cittadini nei confronti dell’amministrazione della giustizia è sotto lo zero. Certo, la storia delle Bicamerali e delle loro tristi fini non conforta. Il paradosso è che pare quasi irrilevante quel che di volta in volta le commissioni hanno proposto al Parlamento. Tanto che si ha poca memoria delle modifiche di 44 articoli della Costituzione proposte dai quaranta membri della prima Bicamerale, presieduta dal liberale Aldo Bozzi nel 1983. Perché quel che successe dopo, negli anni novanta, coincide con i giorni in cui il partito dei pm conquistò la propria Bastiglia. E allora cambiò tutto.
La seconda Commissione Bicamerale per la riforma della Costituzione era presieduta da un democristiano tosto, Ciriaco De Mita, uno che non abbandonerà più la politica fino ai suoi ultimi giorni, a 94 anni ancora sindaco della sua cittadina, Nusco. Siamo nel 1992, e non occorre aggiungere altro, per ricordare quel che stava succedendo al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano, e a cascata nelle procure di tutta Italia. I “dipietrini” crescevano come i funghi dopo la pioggia e i principali partiti di governo erano già in rotta. La Bicamerale lavorava con i suoi sessanta membri. Arriverà a 60 sedute complessive e proporrà, alla fine, la modifica di 22 articoli della Costituzione. Ma a lavoro terminato la presidente si chiamerà Nilde Iotti. Che cosa era successo? Il primo tempo ha l’immagine delle manette, quelle con cui fu portato in carcere Michele, fratello del più noto Ciriaco, arrestato all’interno di un’inchiesta sulla ricostruzione post-terremoto in Irpinia. Ordinaria amministrazione, di quei tempi. Così come repentine furono le dimissioni di De Mita dalla presidenza della Bicamerale. Andava così, allora.
È istruttivo, oggi, a trent’anni da quei fatti, rileggere i verbali stenografici delle sedute della commissione, dopo quelle dimissioni e dopo che Mino Martinazzoli, segretario della Dc, propose che venissero respinte. L’ipocrisia si tagliava col coltello, in quella seduta del 3 marzo 1993. Tutti virtuosamente a dichiarare che se i figli non devono pagare le colpe dei padri, figuriamoci quelle dei fratelli. Però una vera difesa dell’innocentissimo Ciriaco che non era Michele, non ci fu, anche se alla fine le dimissioni furono respinte con grande maggioranza. Ma con l’assenza di Occhetto, La Malfa, Bossi, Segni, Pannella, Craxi. Cioè i principali leader. Ma il colpo di scena arriva alle otto di sera quando, con una telefonata al vicepresidente Augusto Barbera, De Mita confermerà le proprie dimissioni. “Irrevocabili”. Da quel momento su quella commissione che avrebbe dovuto traghettare verso la seconda repubblica, calerà un silenzio tombale.
Che cosa era successo in realtà in quei giorni lo racconterà De Mita stesso quattro anni dopo, rivelando di aver ricevuto un fax con le firme dei componenti il pool di Milano in cui il presidente veniva diffidato dal procedere alla separazione delle carriere dei magistrati, che in quei giorni si stava discutendo e che poi sparì dall’ordine del giorno insieme al presidente della commissione. Ricapitolando, dunque. Fase uno, arresto del fratello. Fase due, minaccia sulle riforme. Se non è ancora chiara la pericolosità delle Commissioni Bicamerali per la riforma della Costituzione, sarà bene ripassare il capitolo di quella che, pochi anni dopo, nel 1997 sarà presieduta da Massimo D’Alema. Provvederà il pubblico ministero del pool milanese Gherardo Colombo, con un’intervista al Corriere della sera, nella domenica 22 febbraio 1998, a lanciare il suo petardo: “Le riforme ispirate dalla società del ricatto”. La conclusione fu lapidaria: “La nuova Costituzione può avere come fondamento quel ricatto”.
Le inchieste di Mani Pulite erano teoricamente ormai alle spalle con la loro scia di suicidi. C’era il governo Prodi e il Pci-Pds era stato miracolato dalle procure. Ma penserà quell’intervista a ricordare “noi abbiamo appena inciso la superficie della crosta”, e che “La società del ricatto trova la sua forza, appunto, su ciò che non è stato scoperto”. Così finì che, dopo un iniziale sostegno anche da parte della stampa al guardasigilli Flick che iniziava l’azione disciplinare contro Colombo, alla fine sarà proprio il ministro la vittima sacrificale, il quinto su iniziativa degli uomini di Borrelli. E anche la terza Bicamerale perì, poco dopo. Attenzione, dunque. Non sarà un caso se da quel giorno di Bicamerali per la riforma costituzionale non si parlerà più fino ai giorni nostri.
