L ’eutanasia della democrazia, di Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Einaudi, è un titolo ambiguo. Se per eutanasia intendiamo una morte dolce, qui la morte, pur ascritta a una modifica costituzionale, dal punto di vista formale (nel 1993, l’articolo 68, che regola le immunità parlamentari), nella sostanza va imputata a fatti storici incalzanti e violenti: Tangentopoli, con l’avvio della Seconda Repubblica.

La tesi principale del libro (Rubbettino, pp.106, euro 14), sviluppata in un modo incisivo sì da renderlo consigliabile soprattutto a chi è nato alla fine degli anni ‘80, è che l’eliminazione dall’articolo 68 dell’autorizzazione a procedere penalmente contro i parlamentari ha manomesso l’equilibrio tra Parlamento e Magistratura nei termini delineati dai padri costituenti. Benedetto ripercorre – in una sintesi che non tralascia citazioni significative – due lavori “costituenti”, quello che diede vita all’articolo 68 della Costituzione da un lato, e quello che, sotto le pressioni di media, popolo, magistratura, portò al risultato di denudare il Parlamento della veste più utile ad affrontare climi ostili: l’immunità processuale. Questo, evidenzia Benedetto, ha creato un caso unico nel mondo occidentale e specificamente nei sistemi di civil law. Tanto più che nei principali ordinamenti europei, i poteri di indagine e pubblica accusa sono esercitati da magistrati in vario modo soggiacenti al ministro di giustizia sicché infine una responsabilità politica chiara rende democratico il sistema. Invece in Italia restiamo con un ordine giudiziario acefalo capace di intimidire il Parlamento.

La parte finale del libro, con accenni che, una volta immessi nel ragionamento, forse avrebbero meritato maggiore attenzione, punta il dito sulle contraddizioni di un sistema malato, stretto tra populismo e uno strapotere di magistrati burocrati non valutati correttamente, con p.m. e gip amici al bancone del bar. In particolare, secondo Benedetto, sarebbe necessaria la separazione delle carriere e, più in generale, sembra ventilarsi una non meglio definita urgenza di valutazione dell’operato della magistratura. Questa parte del libro, tuttavia, rischia di essere suggestiva e fuorviante. Sarebbe stato opportuno, allargato il tema al più vasto orizzonte degli assetti della magistratura, indagare anche il processo costituente che portò agli articoli 101 e seguenti della Costituzione. Mi limito a dire che il giudice burocrate ottocentesco già non è più quello considerato dalla nostra Costituzione (gli studi di ermeneutica di Betti, ad esempio, nascono dal tramonto di certi miti del positivismo giuridico): piuttosto, il Costituente volle una magistratura indipendente.

La preoccupazione pressante, oggi in Europa soprattutto (si veda la poderosa giurisprudenza delle Corti di Lussemburgo e Strasburgo), è di avere un potere giudiziario realmente indipendente e imparziale. Insomma: riscriviamo l’articolo 68, e diamo dignità al Parlamento, sì, ma restiamo sensibili al tema dell’indipendenza della magistratura. Altrimenti rischiamo di combattere un populismo con un’altra manifestazione di esso. Notazione finale: il populismo va sempre attentamente ascoltato. Mai disprezzato.