Col suo ultimo romanzo, Ariase Barretta, napoletano che vive in Spagna, decide di tirar giù molteplici, comode maschere. Cantico dell’abisso (Arkadia, pp. 103, euro 13) racconta in prima persona l’infanzia e la formazione (diremmo, forse, la de-formazione) di un uomo che nel presente narrativo ha compiuto 43 anni, che parla di sé al femminile (e il suo nome da donna è Aurora), che talvolta sente riemergere l’io maschile – Davide -, che non vuole preoccuparsi o affannarsi nel definirsi sotto l’aspetto dell’identità di genere.

Quello che sa, che ha compreso, che desidera raccontare in una sorta di atto unico di poco più di cento pagine in cinque parti, è che ha amato il padre, un uomo tarchiato e peloso, argentino trapiantato a Bologna. E non lo ha amato secondo la categoria ammessa, normativa, tranquillizzante dell’amore da figlio a padre, ma l’ha amato in modo totalizzante, carnale e spirituale a un tempo, con la determinazione e la passione di una moglie o di un’amante devota. È una storia di degrado, obiettivamente. Un’infanzia nella provincia bolognese con un fratello minore, Mauro, destinato a una fine tragica, che di Davide è e resterà la sola vera famiglia; una madre, Rachele, frustrata e irrisolta; un’amica materna, la tremenda Giuseppina, violenta con i bambini, che invaderà la loro casa e segnerà la separazione finale dei genitori; Osvaldo, questo padre che voleva redimersi procreando e, invece, procreando ha scritto la sua condanna finale e irredimibile.

I temi che Ariase Barretta sfiora sono molti e tutti complessi. La famiglia, le origini, l’orientamento sessuale, il genere, le ferite che non sanno rimarginarsi, la violenza sui bambini, l’essere i bambini ostaggio di adulti spaventosi, colpevoli della loro stessa incapacità di diventare adulti senza danneggiare gli altri. Ci sono due temi che è importante sottolineare qui. Da un lato, il tipo di rivendicazione identitaria che Davide produce col suo racconto: l’insofferenza alla categorizzazione di genere, a causa della coscienza della complessità soggettiva del genere: «Non so se sono una donna. E non so se voglio esserlo. Non ha nessuna importanza saperlo. Desidero solo poter continuare a scegliere. Poter essere Davide o Aurora, o nessuno dei due. Poter risorgere ogni giorno e ogni giorno avere la libertà di sentire qualcosa di diverso nascere dentro di me».

Dall’altro lato, il tema scottante (ve ne sono archetipi illustri: The Turn of the screw di Henry James, ma anche un capitolo terrificante di Mario Tobino nel suo Per le antiche scale, e, più recente, uno dei racconti forse più spiazzanti di Giulio Mozzi nella raccolta Il male naturale). Mi riferisco al desiderio sessuale del bambino verso l’adulto. Cui qui si associa quello, per di più incestuoso, dell’adulto. Non saranno pagine facili da leggere, forse resteranno indigeste. Di certo, Cantico dell’abisso è un cantico. Dunque è una testimonianza d’amore deposta tutt’intorno a un’unica certezza: «Nessun corpo è un errore». Scandalosa quanto vorrete, ma, dallo sguardo di chi racconta, testimonianza comunque d’amore. Barretta dovrà tornare su questi temi, con maggiore ampiezza di sguardo e sforzo di approfondimento. Lo farà, perché possiede il coraggio necessario.