La bella indifferenza, secondo romanzo firmato dal napoletano Athos Zontini per Bompiani (pp.247, euro 17), è il frutto di una molteplice, raffinata, dolentemente ironica opera di “restituzione” del Novecento letterario – o di una sua parte cospicua – italiano e non solo. Una restituzione macerata dallo sguardo del XXI secolo (l’autore è nato nel 1972) sull’attualità di Ettore Corbo, protagonista smarrito in cerca di identità, sua e altrui, tuttavia da smarrimento e perdita di identità fatto più leggero, anzi svuotato e dunque, inaspettatamente, allietato.

Il nostro vive in agi borghesi (ha ereditato lo studio di commercialista della madre) e trascina una stanca vita di coppia con Marta, moglie infertile, circondato da colleghi, parenti e amici che sente estranei. Sentimento questo somatizzato dal momento che Ettore si accorge di non essere più in grado di vedere i lineamenti nei volti suo e degli altri, se non a intermittenza e in relazione a circostanze che tenta di interpretare secondo criteri oggettivi, ma che resteranno, per la sua capacità di comprensione, del tutto arbitrarie. Di fronte e attorno, anche allo specchio, volti umani ridotti a uova rosacee senza espressione. Comunicazioni interrotte. Tranne che attraverso la fotocamera del cellulare. Inquadrati lì dentro, i visi ritornano ad animarsi.

Ettore indaga le origini della malattia, finisce dallo psichiatra, infine rifiuta ogni cura perché, dall’iniziale angoscia e frustrazione, dalla spasmodica lotta per riattivare il canale delle comunicazioni per mezzo delle espressioni facciali, passa a un certo punto a godere di una “bella indifferenza” che già da anni abitava i suoi giorni inconsapevoli, e che ora si è incarnata, per così dire, nella costante amputazione di uno dei cinque sensi. La storia della convivenza di Ettore con la malattia rivelatrice si snoda attraverso diversi stadi di consapevolezza ed una serie di non trascurabili inconvenienti pratici, fino a realizzare che quella condizione di isolamento è anche una speciale opportunità di starsene in pace: le finzioni degli altri scorrono in un fiume in cui lui deciderà di non immergersi più.

Sino alla passione smodata che gli scoppierà in cuore per una splendida bambola di nome Jasmine (qui Zontini forse recupera visioni fantastiche – horror e tragicomiche – che agitarono le incredibili novelle di E.T.A. Hoffmann: la bambola Olimpia…). Insomma, Ettore è impazzito? Può darsi che, clinicamente e giuridicamente, lo sia. Certo quella mancanza di relazione con gli altri, quel forzato monachesimo attivo, di chi sta nel mondo ma non è del mondo, quella bella indifferenza, che pure è atroce nel suo sollievo, gli hanno insegnato la vacuità di tutto. E, come in un percorso sapienziale, questo è il racconto di maschere che cadono, pesi e idoli infranti, gioghi che si sciolgono. Ettore è l’inquietante protagonista di un secolo che trova la sua identità nello svuotamento, in un principio di verità da pratica ascetica contemporanea: il guaio è che nulla viene a riempire il vuoto. E questa palude ghiacciata Zontini la attraversa tutta, con una prosa che è una meraviglia, con un equilibrio narrativo che è una perfezione.