In diverse occasioni istituzionali (la giornata per le vittime dell’omotransfobia o quella contro la violenza sulle donne) mi è capitato di recente di dismettere i panni del giurista per ricordare a me stesso e ai presenti che, per far comprendere l’anima di alcune fondamentali rivendicazioni, nulla è efficace quanto raccontare storie, mettere in scena la rappresentazione dell’esperienza umana specifica e irripetibile.

Il tanto rumore sollevato negli ultimi mesi intorno al ddl Zan, ad esempio, è stato accompagnato da una strutturale incapacità di empatia, che è la chiave principale, se non la chiave, della conoscenza. Un paradigma comunicativo esemplare, per efficacia e sapienza, è in questo senso l’ultimo libro di Sandra Petrignani, Leggere gli uomini (Laterza). Libro profondamente politico e, allo stesso tempo, portatore di grande, liberatoria leggerezza spirituale. L’autrice chiama a raccolta importanti autori del passato più lontano e prossimo (il libro si chiude con Daniele Del Giudice) per dare atto del loro peso sulla sua formazione di lettrice e poi artista della scrittura, da un lato, e per indagare le specifiche ossessioni del mondo maschile dalla prospettiva dello sguardo femminile, dall’altro.

Evidente, allora, quanto il discorso identitario sia forte: è dalla consapevolezza della differenza che deriva l’apertura all’alterità, è dal riconoscimento di certe “ricorrenze del pensiero” da maschi che prendono forma ora la contrapposizione, ora il rifiuto, ora l’accettazione, ora la compassione da parte degli occhi diversi della “lettrice femmina”. Ma qui non è più questione di definire, rivendicare, pretendere: queste sono pagine di intima, totale, pacificata ma dinamicissima consapevolezza della diversità tra maschile e femminile (naturale, storica, metafisica che sia!), dentro un gioco incandescente che arriva alla fine a “contemplare in pace la bellezza del mondo (letterario)”. E in questa contemplazione lo sguardo della donna osserva lo sguardo dell’uomo sulla donna (quello che in Flaubert paradigmaticamente giunge a pronunciare “Madame Bovary c’est moi”).

Per arrivare a una conclusione che sancisce definitivamente quell’irriducibile differenziazione tra uomo e donna: «Un uomo non ha bisogno di definirsi attraverso l’altro femminile: lui è la misura di tutto (…)»; per tributare alla lettrice donna la capacità di un «doppio passo per riconoscersi nei pensieri, nella sofferenza, nelle idee di uomini dentro personaggi di uomini, ma chiamate in causa direttamente come eroine magnifiche quanto deprezzate, vittime di se stesse e di un sistema che le ha volute e condizionate così». Per realizzare la tessitura di un libro che volge e riavvolge fili, ma anche li svolge e li sparge come migliaia di minutissime sottotrame incompiute affidate ai ferri del lettore, Petrignani ricompone un mosaico di brani e citazioni degli autori più amati o di quelli che per ragioni insondabili sono arrivati sulla sua pagina, inaspettati, magari non voluti, eppure saggiamente accolti: come se entrassimo nella sua libreria (di oggi, ma anche di ieri, di lei bambina che ascolta dalla voce paterna gli intrighi dei tre moschettieri) e le pagine fossero sospese tutt’intorno, e le mani dell’autrice prendessero, come ingredienti dai vasi di una cucina o di una farmacia, quanto serve a mettersi in cammino e a gettare una luce per noi che, leggendo, seguiremo la strada tracciata, con le sue fermate.

Quella delle avventure in giro per il mondo e lungo la storia (Kipling o Dumas). Quella dell’innamoramento fisico, oltre che intellettuale, per uno scrittore: sono un rigoglio di passione e di desiderio di comunione col lettore le pagine dedicate a Beckett («Niente è posa in Beckett. Solo essenzialità, solo nobiltà, autenticità, decoro nell’estrema vulnerabilità dell’essere scrittore, e scrittore del silenzio in contraddizione col bisogno ineliminabile della parola»: segue una citazione dall’Innominabile che pare un esercizio spirituale e come tale lascia svuotati tranne che per un residuo di felicità perplessa). Vi sono poi le stazioni dedicate all’orrore del tempo che passa e alla paura della morte, con l’ansia connessa di lasciare traccia di sé, forse perché il maschio potrà essere padre, ma mai generare dalla sua carne la vita: «Almeno io così mi spiego l’ansia invasiva e totalizzante dell’animo maschile su alcune idee maiuscole, la fissazione senza pace su certi temi: il Tempo, la Morte, il Doppio, il Gioco, la Guerra, l’Eroismo»).

Come pure la difficoltà, addirittura l’odio tutto maschile di parlare di sé (a memoria andrebbe imparato il capitolo “Parlami di te”!). A me, lettore “maschio” omosessuale, questo libro per certi versi approfondisce, per altri alleggerisce il mio senso di nostalgia per il corpo e lo sguardo femminili: nel suo amorevole cammino identitario, la sua consegna finale è che, leggendo, incrociamo e accogliamo l’anima di chi scrive. Ed è a noi che la Petrignani affida, appassionatamente, quella luce “che brilla da lontano, lontanissimo, addirittura del 1871 quando Arthur Rimbaud (…) scrive: ‘Io è un altro’”.