Ci sono romanzi che ricordano quanto sia difficile raccontare l’ardua impresa di intendere un senso, di raccogliere i segni, di osservare il flusso minuto, leggero, frammentario, eppure così pesante per ognuno di noi, dei nostri giorni: in ciò, nella letteratura del XXI secolo, Mrs Dalloway di Virginia Woolf (con quel suo cogliere il movimento di una giornata in tutto il suo farsi disperato) fu una vera epifania. Ho riprovato esattamente quel sentimento di struggimento, evanescenza e ricerca di un ancoraggio allo stesso tempo, leggendo Emersione (Nutrimenti, p.224, euro 17), l’ultimo romanzo della napoletana Benedetta Palmieri, che torna alla scrittura dopo un silenzio decennale (igiene della parola: ricetta da prescrivere a tutti noi che ne facciamo uso, tanto più se questi ne sono i frutti).

La sua scrittura si muove con la prima persona in un racconto straordinariamente intimo che si articola in tre parti, di lunghezze molto diverse, come diverso è sempre il tempo totalmente soggettivo delle esperienze e, dunque, quello che appartiene al racconto che decida di narrarle: un’esperienza, qui, di morte, di un suicidio (i lettori noteranno che il tema è ricorrente nelle ultime recensioni) di chi fu compagno e amante della protagonista, nominata – con la voce del lui scomparso – Hornby. Appunto, fu: la “sparizione” del suicida impone una lunga discesa in apnea verso le regioni della migliore consapevolezza di sé, dove il tempo si dilata in mille smagliature, e tutto ha un peso. Il modo di chiudere le persiane. Le piante che crescono in casa. Stromboli col suo vulcano. Le ossessioni di chi scrive (le pagine su Falcone e Borsellino che inizialmente sembrano stonare, fanno parte della capacità della Palmieri di restituire sulla pagina tutta la vita di chi sta elaborando il lutto per riemergerne). Le frasi dette o solo pensate. Le poltrone. Nicola. La città di Napoli.

La prima parte è molto più lunga: è quella del tempo necessario alla comprensione e accettazione della realtà. La lingua con cui questo romanzo è scritto è in effetti quella del tempo sospeso, osservato, lingua di nuova iniziazione alla vita: le parole, le frasi, gli a capo, le virgole sono sempre esatti, profondamente sincere, un suono pieno che dà corpo al silenzio della paura e del senso di colpa: “Mi siedo su una delle panchine, la luce si spalanca, intorno a me riconosco un sentimento di macerie. Non quelle che i detrattori vogliono vedere della città, non è lei a stare male (…) Sono io. Sono mie le macerie. Sono le mani anchilosate, i pensieri trascurati, le prese di coscienza sempre rimandate, la sfacciataggine mai praticata.

Pezzi rotti, emozioni in disuso, scelte innescate e non partite, o partite e rimaste con le molle di fuori ai piedi di un muro”. Ed è con gioia ammirata che arriviamo al punto in cui Hornby ritorna alle parole: “Anche se le ho trascurate troppo a lungo. Anche se da un certo momento, che ancora mi sfugge, non mi ci sono più affidata”. Emersione è la veste luminosa per una fede rinnovata nelle parole. Che – la Palmieri non lo dimentichi – sono le sue ma, fortunatamente, anche le nostre e di questa città. Attendiamo quelle che in futuro prenderanno corpo dai fecondi silenzi di questa autrice.