Da decenni si discute del futuro del romanzo, della sua morte, della sua eventuale rinascita. Del senso che oggi può ancora avere una narrazione “classica”, con tanto di ambientazione storica, frotte di personaggi, sviluppi d’intreccio secondo una linea cronologica unitaria. Dibattito interessante, che deve fare i conti con un dato molto concreto: leggere quel tipo di romanzo resta un piacere. Lo è leggere il romanzo d’esordio di Mara Fortuna, Le magnifiche invenzioni (Giunti, pp.387, euro 18), ambientato tra Napoli e Parigi nell’ultimo decennio del XX secolo, incentrato su una rete di personaggi disegnati con tratto sempre efficace.

Al centro della storia, due fratelli: Gaetano, ballerino al San Carlo, e che debutterà a Parigi nell’anno dell’Esposizione Universale, e Tunino, dapprima lavorante in una bottega (anzi, puteca), poi muratore a Parigi, ma sempre animato dall’unico, grande desiderio di volare, e di volare attraverso una sua invenzione. Intorno ai due fratelli, si muovono la madre Rachelina, invalida incattivita dalla povertà nella casa buia del Cavone; Monsieur Marey, scienziato studioso del movimento, munito di uno strambo fucile che invece di sparare scatta fotografie, soprattutto ai salti di Gaetano; il maestro di musica Philippe, trapiantato a Napoli e destinato a scontare severamente i suoi ideali anarchici; Apollonia, “rossa e malupina”, che combatte le tempeste della vita con sonore risate.

Si tratta solo di alcuni dei personaggi che abitano quest’affresco avvincente, che ci fa compagnia di avventura in disavventura, di gioia in dolore, grazie al modo scorrevole e allo sguardo lieve e sapiente dell’autrice, uno sguardo, sempre, di giustizia e misericordia. Al quale corrisponde quel che, forse, è il tema centrale del romanzo: la capacità di spiccare il volo, contro ogni ragionevole tentativo di trattenerci a terra, a dispetto della pesantezza delle zavorre che andiamo trascinando, e che soprattutto a Napoli sono così evidenti, nei vicoli oscuri, nella povertà irredenta, nella sete di giustizia che non trova requie, nonostante la bellezza di mare e cielo, di Posillipo e Chiaia. E per spiccare il volo, come la storia di Tunino insegna, e come quella dello stesso Gaetano (forse in modo narrativamente meno compiuto e convincente) indica, bisogna avere il coraggio di perdere tutto. E dopo il primo tentativo, che di rado riesce come vorremmo, tocca insistere e ricominciare, con piglio forsennato e magnifico, come magnifica è l’invenzione del meccanismo delle ali progettato e realizzato con pervicacia dal Tunino-Icaro immaginato da Mara Fortuna.

Sotto quel volo si dispiega il dolore dell’umanità, il dolore del Sud, la pena di non trovare forme di riscatto e di rinascita. Quando l’anarchico Philippe pensa alle morti dei lavoratori, pensa ai “morti bambini. La pena che provava era la stessa, perché ciò che era inaccettabile per gli uni era esattamente ciò che era inaccettabile per gli altri: la vita negata”. A questa si oppone la vita celebrata con “i sette metri di ali giallo canario” che Tunino si porta dietro le spalle per spiccare un volo a cui invita il lettore e, forse, anche la città di Napoli.