L’anno del bradipo. Diario di un critico di provincia (Inschibboleth, pp. 368, euro 26) contiene nel titolo due segni caratterizzanti le scelte esistenziali di chi scrive. Il siciliano Domenico Calcaterra (1974) oppone alle velocità rutilanti e illusorie che ci astringono la pazienza dell’annotazione quotidiana, nell’anno che attraversa l’inizio della pandemia. Lo fa prendendosi tutto il tempo che gli serve. Già solo per questo è una “lettura-farmaco”. A ciò si aggiunge che la scrittura discende da un critico di provincia: rivendicazione di uno status più che un mestiere, di un’intimità geografica alternativa alla centralità delle relazioni “che contano” dentro le grandi città italiane.

Presentare i caratteri di un diario è difficile, si sa. Questo, poi, denso com’è di pensiero, argomentazione, stile, palpiti e desiderio, va soltanto, lentamente, sorseggiato, come una bevanda calda (in una stanza invernale, ma anche nel deserto). Il libro inizia nella spietata afa siciliana e si chiude un anno dopo, ancora d’estate. Attraversa le stagioni, ponendosi domande: sui cari che sono andati via e che, pure, si avvertono presenti nell’assenza (l’Aviatore, Basilisca, Paco e altri “involati”); sul fare oggi l’insegnante in una scuola media; sugli scrittori amati e studiati (le pagine su Consolo, un esempio su tutti, ma anche quelle su Thoreau); su che cosa davvero comporta essere oggi un critico letterario, con la coscienza alta dell’essenzialità del compito di decifrare la scrittura altrui per mezzo della propria, in un percorso che non è solo interpretazione, ma ri-nascita di significato.

Il bradipo di Calcaterra è un animale straordinariamente libero nella generosa ricerca di connessioni con i vivi e con i morti attraverso la fede critica nel logos. Questa generosità è animata dal desiderio che trabocca a ogni pagina di spezzare l’isolamento cui ci siamo condannati, di adoperare gli strumenti dell’analisi critica per una vera comunicazione, dove l’io critico ha il coraggio di spendere il suo nome e, col suo nome, la sua visione, la sua scrittura, il suo impegno. Si capirà che si tratta non solo di critica letteraria, qui, ma di un portamento critico tout court drammaticamente latitante. Ecco perché quando leggiamo una pagina di critica vera, la sentiamo viva e ci appassiona, a volte più dell’opera stessa: sperimentiamo l’impegno della relazione attraverso una parola di discernimento nata da pensiero e immaginazione, tutto il contrario della torpida indifferenza dentro cui andiamo galleggiando. Alla data del 9 gennaio leggiamo: «Scrivo per dare conto di una verità soggettiva, che pure mi sopravanza». E non a caso, qualche riga prima: «Scrivo per ricordarmi che l’anima è luce».

Per questo siamo grati a Calcaterra per aver lasciato questo diario in memoriam di un tempo che sembra aver ammassato ogni cosa, mentre noi però, soffrendone, cerchiamo uno sguardo di profondità, e un tempo di analisi e sosta. Alla domanda che l’autore del diario, quasi a un anno dal suo inizio (10 luglio), si porrà, e cioè se il poco che sono le sue ossessioni, passioni e imprese bastino a giustificare ciò che Berto chiamava “il naturale narcisismo” dello scrivere di sé, rispondiamo quindi con convinzione: sì!